Dal libro del profeta Geremìa (31,31-34) – Concluderò un’alleanza nuova e non ricorderò più il peccato: Le parole di Geremìa, nonostante la fama di lagnoso, sono parole di consolazione, di speranza e di ottimismo. Dopo il fallimento dell’antica alleanza e il tentativo non riuscito del re Giosia per restaurarla, il disegno di Dio appare in una luce nuova. Dopo il tracollo in ogni campo, politico, sociale e militare, in Israele sussisterà un «resto» (Is 4,3), con il quale Dio concluderà un’alleanza eterna, come al tempo di Noè (cfr. Is 54,9-10). Questa nuova alleanza sarà portatrice di buone nuove che possono essere espresse in tre punti: 1. l’iniziativa divina del perdono dei peccati; 2. la responsabilità e la retribuzione personale; 3. l’interiorizzazione della religione: la legge cessa di essere solo un codice esterno per diventare un’ispirazione che invaderà il «cuore» dell’uo-mo, il quale sotto l’influsso dello Spirito di Dio sarà capace di conoscere e di servire Dio (cfr. Os 2,22). Questa alleanza, sigillata col sangue del Cristo, sarà universale (cfr. Mt 26,26-28).
Dal Salmo 50 (51) – Crea in me, o Dio, un cuore puro: «Abbi pietà, perché questo è il tempo della misericordia e nel tuo Vangelo hai detto che non sei venuto per giudicare il mondo ma per salvarlo. La tua misericordia è molto più grande della mia miseria. La moltitudine delle tue compassioni: tante volte hai salvato i nostri padri, il tuo popolo, anche quando questo si mostrava ingrato e mormorava. Cancella il mio delitto tu che cancelli il nome degli empi e hai cancellato il mio chirografo (cfr. Col 2,14)» (Sant’Anselmo).
Dalla lettera agli Ebrei (5,7-9) – Imparò l’obbedienza e divenne causa di salvezza eterna: Gesù, solidale con gli uomini, sa compatire le loro miserie perché le ha vissute (cfr. Eb 2,17-18; 4,15). Gesù venne esaudito non nel senso che egli sia stato sottratto alla morte, che era l’obiettivo della sua incarnazione e di tutta la sua vita, ma è stato sottratto al suo potere (cfr. At 2,24s) e Dio ha trasformato questa morte in una esaltazione di gloria. Gesù fu esaudito per il suo pieno abbandono: il termine implica rispetto e sottomissione. Gesù, consumato il proprio ufficio di sacerdote e vittima, fu reso perfetto divenendo in tal modo causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono.
Dal Vangelo secondo Giovanni (12,20-33) – Se il chicco di grano caduto in terra muore, produce molto frutto: Giovanni sembra evocare la scena del Getsemani: angoscia davanti all’«ora» imminente, preghiera fiduciosa al Padre, accettazione della volontà divina, consolazione venuta dal cielo. Gesù si offre alla morte per compiere l’opera che glorificherà il Padre manifestando il suo amore per il mondo. La sua morte, inoltre, riscatterà gli uomini liberandoli dalla tirannia di Satana. Elevato sulla Croce, Gesù si svelerà agli occhi di tutti come il salvatore del mondo (cfr. Gv 19,37). È la risposta ai Greci che cercavano di «vederlo» (Gv 6,40).
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsàida di Galilea, e gli domandarono: «Signore, vogliamo vedere Gesù». Filippo andò a dirlo ad Andrea, e poi Andrea e Filippo andarono a dirlo a Gesù. Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna. Se uno mi vuole servire, mi segua, e dove sono io, là sarà anche il mio servitore. Se uno serve me, il Padre lo onorerà. Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre, glorifica il tuo nome». Venne allora una voce dal cielo: «L’ho glorificato e lo glorificherò ancora!». La folla, che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano: «Un angelo gli ha parlato». Disse Gesù: «Questa voce non è venuta per me, ma per voi. Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me». Diceva questo per indicare di quale morte doveva morire.
Approfondimento
L’ora di Gesù nel IV Vangelo – F. L. – G. B. (Ora in Schede Bibliche Pastorali, Vol. VI, EDB): In generale, per Giovanni l’ora è il tempo in cui si compie l’opera alla quale uno è stato particolarmente destinato. L’ora della donna che sta per diventare madre, è quella del parto (Gv 16,21). L’ora dei giudei increduli è il tempo nel quale Dio permette loro di compiere il delitto (Gv 16,3-4). L’ora di Gesù è il momento nel quale si realizza definitivamente l’opera per la quale egli è stato inviato in questo mondo, cioè la vittoria sul peccato e sulla morte (cfr. Gv 12,23ss).
È evidente che «quest’ora» rappresenta per Giovanni un criterio di prim’ordine, perché dà senso all’insieme della vita di Gesù. Da questo punto di vista, il IV vangelo si divide in due sezioni: una prima parte segna una progressione costante, un avvio continuo verso quest’ora decisiva che ancora non è giunta; la seconda parte ci presenta l’ora ormai giunta, e ne spiega la portata salvifica […].
«È giunta l’ora»! L’ora di Gesù è perciò la grande ora di salvezza. Benché significhi anzitutto il momento fissato dal Padre per la passione, essa indica l’avvenimento globale, indivisibile che si compie dalla morte all’ascensione, e che viene sigillato con l’effusione dello Spirito.
Noi vediamo delinearsi, in prospettiva, i diversi fatti: della morte, sepoltura, risurrezione, ascensione, pentecoste (così li enuncia il Credo). Giovanni invece li vede come un solo avvenimento: la glorificazione di Gesù, che è appunto la sua ora. Se durante la giornata di Gesù, cioè il periodo della sua vita pubblica (9,4; 11,9) nel quale egli fu luce per Israele, la sua gloria fu velata dalla presenza del suo corpo terreno, nell’ora che segna la fine della giornata, quando cade la notte per i giudei (12,35), la gloria di Gesù si rivela: «Gesù rispose: È giunta l’ora che sia glorificato il figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto…» (12,23-24.27-28.31-32).
In 13,1 poi leggiamo: «Prima della festa di pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».
Significativo è anche l’inizio della preghiera sacerdotale: «Padre, è giunta l’ora; glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te» (17,1).
Lo stesso concetto viene espresso nel quarto vangelo anche con l’avver-bio «adesso» (nyn). Alla samaritana Gesù proclama che «è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… Ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori» (Gv 4,21 e 23). Vuol dire che sono giunti i tempi ultimi, quelli definitivi, in cui il culto sarà espressione del dono dello Spirito di Dio. Già abbiamo citato 12,31-32: l’ora è il momento attuale in cui si compie il giudizio del mondo e il principe del mondo è vinto. Cristo attirerà tutti a sé dall’alto della croce. Tema comune all’ora storico-salvifica di Gesù è l’affermazione di Gesù in 13,31: adesso il figlio dell’uomo è stato glorificato e Dio è stato glorificato in lui. Si veda anche 17,5 in cui Gesù supplica il Padre di glorificarlo con quella gloria che egli aveva presso di lui prima della formazione del mondo. Momento della glorificazione, ma anche momento dell’andata al Padre: «Ora però vado da colui che mi ha mandato» (16,5); «Ma ora io vengo a te [Padre]» (17,13). È anche il momento in cui i discepoli sanno che Gesù è il rivelatore definitivo di Dio (17,7-8).
Commento al Vangelo
Se invece muore… – I sommi sacerdoti e i farisei avevano deciso di uccidere Gesù a motivo dei molti segni da lui compiuti (cfr. Gv 11,45-53). A conoscenza di questo, Gesù «non andava più in pubblico tra i Giudei» (Gv 11,54). In questa cornice di odio, dopo l’unzione di Betania e l’ingresso messianico a Gerusalemme (cfr. Gv 12,1-19), Gesù annunzia la sua glorificazione che si rivelerà nella sua morte e risurrezione. Le parole di Gesù, quindi, vanno lette in una luce gravida di mestizia, di oscuri presentimenti, di acuto dolore per l’imminente passione e il distacco dai suoi amici.
A fronte di questi fatti, «la vicenda umana di Gesù si presenta subito come tragica e vittoriosa, in quanto rivela la sua Umanità in un mistero di dolore che salva il mondo e insieme lo eleva nella vittoria e nel trionfo. È questo l’aspetto caratteristico di questa liturgia su cui dobbiamo attardarci nella meditazione e nella riflessione» (M. Biocco).
Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa c’erano anche alcuni Greci. Qui i greci designano i pagani convertiti all’ebraismo (cfr. Gv 7,35); erano giunti a Gerusalemme in occasione della Pasqua e avevano espresso il desiderio di vedere Gesù. A questa richiesta Gesù risponde con delle parole che rivelano la sua vera identità: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato».
I discepoli avevano udito molte volte che l’ora designata dal Padre non era ancora venuta (cfr. Gv 2,4; 7,30; 8,28). La risposta di Gesù quindi è foriera che questa ora è scoccata sul quadrante di Dio.
Nel Vangelo di Giovanni, l’ora di Gesù è l’ora del suo ritorno alla destra del Padre; è l’ora della sua glorificazione che si rivela nella Croce. Tale «glorificazione, preparata dal segno di Betania con la risurrezione di Lazzaro [cfr. Gv 11,4], incomincia allorché Giuda, in balia di Satana, dà inizio al suo tradimento [cfr. Gv 13,31]. Essa raggiunge l’apice nella esaltazione del Figlio dell’uomo sul trono regale della Croce [cfr. Gv 3,14; 12,32.34]. La persona glorificata è il Figlio dell’uomo cioè l’uomo Gesù, il Verbo di Dio fatto carne» (Salvatore A. Panimolle).
Se il chicco di grano… L’immagine del chicco di grano che deve cadere in terra, che deve marcire e morire per portare frutto, visualizza la via che il Padre ha scelto per raggiungere gli uomini per salvarli dal peccato e liberarli dall’oscuro dominio della morte. È la via della Croce percorsa dal Figlio, obbediente alla volontà del Padre «fino alla morte e a una morte di Croce» (Fil 2,8) ed è la via che i discepoli, sull’esempio del loro Maestro, devono percorrere se vogliono che la loro vita porti abbondanti frutti di santità e di salvezza (cfr. Rm 8,17).
Nella logica pasquale «non c’è vita senza morte: ce lo suggerisce la piccola parabola del chicco di grano nel Vangelo di oggi. Il chicco si realizza in frutto di vita solo accettando il passaggio attraverso la morte/caduta in terra. È un momento dialettico e vitale, senza il quale non passa ad un livello superiore di vita. Se mi salvo come chicco, non porto frutti; se viceversa, mi nego come chicco porto molto frutto» (R. Scognamiglio).
Se uno mi vuol servire, mi segua… La sequela posta in questo contesto allude palesemente al Calvario e solo chi raggiungerà la sua vetta sarà onorato dal Padre: «Al termine di una sequela fedele e generosa – dove la croce di Gesù diventerà il passaggio necessario per una vita spesa nel dono di sé – verrà come ricompensa l’“onore” dal Padre: l’unione e la comunione intima con lui» (Il Nuovo Testamento, Ed. Paoline).
Adesso, l’anima è turbata… Queste parole trasportano il lettore nel giardino degli Ulivi, dove il Figlio dell’uomo suda sangue, dove prova paura e angoscia per l’agonia e la morte violenta che lo attendono, dove gusta l’amaro vino mescolato con fiele dell’abbandono dei suoi discepoli. In quel giardino dove si consuma il tradimento di Giuda, dove gli aguzzini possono finalmente dare la stura a tutta la loro sanguigna rabbia mista a violenza e odio. Gesù è abbandonato dal suo popolo da lui tanto amato e beneficato (cfr. At 10,38); abbandonato alla nequizia dei capi del Sinedrio, ubriachi e travolti da una ferocia bestiale che li rende incapaci di vedere nei segni compiuti da Gesù il dito di Dio (cfr. Lc 11,20). È abbandonato dai suoi discepoli, che lo lasceranno solo, immerso in una mortale agonia, a lottare contro il terrore della morte (cfr. Mt 26,36-46).
Gesù si sente abbandonato anche dal Padre: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora?» (Gv 12,27).
È l’ora del Padre, ma è anche l’ora delle tenebre (Gv 12,31). Il mistero dell’iniquità (cfr. 2Ts 2,7) sembra palesarsi in tutta la sua bruttura. Viscido, come un torrente di liquami, sembra scivolare nelle coscienze degli uomini, violentandole, catturandole, rendendole schiave di progetti infernali: Gesù «intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda, figlio di Simone Iscariota. Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui […]. Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (Gv 13,27-30). Ma Gesù non cessa di amare. Questa è la lezione più bella che viene dall’intero brano evangelico. La Croce, la sua elevazione, sarà la prova suprema del suo amore e della sua fedeltà al Padre e agli uomini. Egli sarà elevato e si sederà su un trono di amore e di là, dall’alto della Croce, epifania della misericordia dei Tre, Egli riaccenderà l’amore là dove era spento e irradierà misericordia, comunione e bontà dove c’era solo odio, inimicizia, peccato e maledizione.
Venne allora una voce dal cielo. L’evangelista riporta delle reazioni diverse a questa manifestazione celeste: alcuni dicevano che era stato un tuono, quindi incapaci di ricevere alcuna rivelazione da parte di Dio (cfr. Es 19,16; Sal 29,3-9); altri credono che sia stato un angelo a parlare, non riescono cioè a penetrare in pienezza il mistero del Cristo. A tali reazioni Gesù spiega che la voce è venuta per loro e qual è il messaggio che porta: è imminente la glorificazione del Figlio che dovrà passare attraverso le strettoie della Croce. La voce dal cielo, la voce del Padre, è una attestazione solenne che in Gesù «abita corporalmente tutta la pienezza della divinità» (Col 2,9; Gv 1,14): la Passione, la Morte, la Risurrezione manifesteranno tale divinità anche nell’umanità del Verbo.
Riflessione
Cristo giunge alla perfezione, come uomo, mediante la sofferenza – Don Enzo Cuffaro: Il sacerdozio eterno di Cristo prende consistenza nel racconto evangelico della Passione: “nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (v. 7). Queste forti grida e lacrime si riferiscono soprattutto alla preghiera di Cristo tra il Getsemani e il Golgota, dove Egli chiede di essere liberato dalla morte: “Abba! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice!” (Mc 14,36). L’autore della lettera agli Ebrei afferma che Cristo è stato esaudito in questa sua richiesta, sebbene in un modo piuttosto singolare: il Padre libera Cristo dalla morte facendogliela attraversare. Per il Signore, la vita cristiana non consiste in una liberazione che rimuova sistematicamente tutti gli ostacoli del cammino, ma il vero senso della liberazione cristiana è la comunicazione di uno spirito superiore, che permette di attraversare fatiche e tribolazione senza esserne schiacciati, e soprattutto ritrovarsi uomini nuovi, dopo avere superato la prova. Cristo viene liberato dalla morte non perché la morte gli viene evitata, ma perché Egli l’attraversa senza rimanerne schiavo, e giunto al di là di essa, Egli riprende sovranamente la sua vita così come liberamente l’aveva donata. Non più, però, la povera e corruttibile vita di prima, bensì la vita definitiva, la vita trasfigurata dalla risurrezione. Da questo momento in poi, tutti quelli che come Lui donano la propria vita, la ritrovano divinamente potenziata: così il mistero pasquale di morte e risurrezione torna al centro dell’attenzione nella vita cristiana e nel suo culto, modellato su quello che Cristo offre al Padre mediante l’offerta del proprio Corpo. Egli “per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito” (v. 7). Questa è dunque la condizione per dare alla propria sofferenza il senso cultuale della Pasqua di risurrezione: la disposizione del Figlio che si abbandona alla volontà del Padre, qualunque essa sia.
Si aggiunge poi un altro particolare che potrebbe trovarsi molto bene anche nel vangelo di Luca: “Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (vv. 8-9); questo riferimento esprime l’idea che l’umanità di Cristo si evolve secondo le regole proprie della natura umana; il vangelo di Luca osserva che Cristo si evolve nel suo approccio con la vita, e da fanciullo diventa uomo, crescendo in età, sapienza e grazia (cfr. Lc 2,40.52). Anche se il Verbo è immutabile nella sua divina perfezione, tuttavia l’umanità di Cristo ha bisogno di diventare perfetta mediante l’esercizio delle virtù. Anche Cristo, dal punto di vista umano, diventa perfetto e acquisisce le virtù man mano che le esercita; così, come per ogni altro uomo, la ripetizione degli atti forma in Lui l’apparato delle virtù. In particolare, la sua ubbidienza appare particolarmente provata: man mano che essa diventa difficile e sofferta, cresce anche di intensità e di valore dinanzi al Padre. Nel momento in cui questa obbedienza arriva alla sua ultima perfezione, attraverso l’obbedienza alla morte di croce, Egli diventa perfetto dal punto di vista dell’esercizio della virtù. Giunto a questo vertice, diventa utile anche agli altri, ovvero causa di salvezza per coloro che gli ubbidiscono. Infatti, Cristo merita ubbidienza, avendo Egli stesso ubbidito fino alla morte.
La pagina dei Padri
Tutto attirerò a me – Agostino: “E io, quando sarò levato in alto da terra, tutto attirerò a me” (Gv 12,32). Cos’è questo «tutto», se non tutto ciò da cui il diavolo è stato cacciato fuori? Egli non ha detto: tutti, ma «tutto», perché la fede non è di tutti (cfr. 2Ts 3,2). Questa parola non si riferisce quindi alla totalità degli uomini, ma alla integrità della creatura: spirito, anima e corpo; cioè, quel che ci fa intendere, quel che ci fa vivere, quel che ci fa visibili e sensibili. In altre parole, colui che ha detto: “non un capello del vostro capo andrà perduto” (Lc 21,18), tutto attira a sé.
Se invece vogliamo interpretare «tutto» come riferito agli stessi uomini, allora si deve intendere che con quella parola si indicano tutti i predestinati alla salvezza. In questo senso il Signore dice che di tutti questi nessuno perirà, come prima aveva detto parlando delle sue pecore. Oppure «Tutto» – egli dice – «attirerò a me», in quanto io sono il loro capo ed essi le mie membra.