27 Febbraio 2018 – Martedì, II di Quaresima – (Is 1,10.16-20; Sal 49[50]; Mt 23,1-12) – I Lettura: La missione di Isaìa inizia intorno al 740 a.C.. I re di Giuda susseguitisi da Acab in poi, non avevano abolito le pratiche idolatriche e animiste adottate ad imitazione dei popoli vicini e, a causa del peccato d’idolatria, Giuda cade nelle mani dei re di Siria e di Samarìa. Isaìa predica la conversione, il ritorno al vero culto a Dio che consiste anche nell’attenzione ai più deboli. Salmo: “Un’anima che vede come essa è, non può immaginare che Dio le rassomigli; vede troppo la sua difformità e grida: Chi è come te Signore? (Es 15,11). Ma all’anima peccatrice e orgogliosa Dio dice: Ti accuserò e ti rinfaccerò tutto” (Bernardo). Vangelo: Questo brano di Matteo fa parte di un lungo rimprovero rivolto ai Farisei. Gesù non contesta la loro autorità, ma li accusa di incoerenza (dicono e non fanno). Come trasmettitori della legge tradizionale di Mosè, loro sono portavoce di Dio, ma in quanto a pratica diventano di vero scandalo. La raccomandazione di non chiamare Rabbì (che significa “mio grande” o mio signore”), vuole indicare ai discepoli di non fermarsi alla dottrina degli uomini, ma ad avere come punto di riferimento Dio.
Dicono e non fanno – Dal Vangelo secondo Matteo: In quel tempo, Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente. Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
Riflessione: «Cessate di fare il male, imparate a fare il bene». Questa esortazione che ritroviamo nel profeta Isaìa, ben si lega al rimprovero che Gesù muove a scribi e farisei di tutti i tempi, e certamente anche a noi. Vediamo quindi di attualizzare oggi tale Parola! Possiamo dividere tale ammonizione in due parti distinte e correlate: anzitutto “cessate il male” e poi “imparate a fare il bene”. La prima parte suppone un riconoscimento delle nostre opere malvagie. Prima tappa essenziale sarà quindi imparare a fare bene l’esame di coscienza. Tante volte ci siamo soffermati su questo, e ancora vogliamo farlo, specialmente in questo “tempo favorevole” che è la Quaresima. Cosa significa: imparare a fare l’esame di coscienza? Forse non conosciamo i dieci Comandamenti? Forse non sappiamo distinguere cosa è giusto da cosa è sbagliato? Certamente sì! Ma esaminare la coscienza suppone un lavoro di attenzione, di ricerca, di conoscenza profonda della propria coscienza. Interrogarsi sui comandamenti, ci porta semplicemente a sapere se abbiamo o no commesso un determinato peccato, per esempio l’ira. Ma esaminare la coscienza significa andare oltre: perché è presente in me quest’ira? Da dove nasce? dove trovo le sue radici? cosa mi rende irascibile? come posso combattere in me questo difetto che rischia di trascinarmi negli abissi tenebrosi del peccato? Si capisce da questo semplice esempio che è molto diverso farsi l’esame di coscienza del semplice chiedersi se ho osservato i Comandamenti! Mettiamo ogni sforzo per conoscerci a fondo, chiediamo luce nella preghiera per poter capire cosa muove davvero i nostri sentimenti. Ma poi dobbiamo passare alla seconda fase: imparare a fare il bene. Infatti per il cristiano, la perfezione non coincide con l’assenza di peccato, con una coscienza cristallina e pura. La santità sta nel compiere le opere del Padre: devo imparare a compiere il bene! Chi afferma: “non ammazzo e non rubo”, dichiarandosi così “buon cristiano”, si capisce che non ha idea di cosa sia il cristianesimo! Gesù non è venuto a ricordarci i Comandamenti ma a darci un esempio per operare secondo i sentimenti di Dio: «vi ho dato l’esempio perché vi amiate come io vi ho amati».
La Parola di Dio commentata dal Magistero della Chiesa: Verità e Carità: binomio semplice ma socialmente non facile – Paolo VI (Udienza Generale, 18 Febbraio 1976): Una parola ora è di moda a tale riguardo, la parola «autenticità», analizzando la quale, per scoprirne il senso interiore, riferito al comportamento umano, vediamo che autenticità comporta perfetta armonia fra pensiero e azione; esige cioè una semplicità d’animo, una trasparenza fra l’inter-no e l’esterno della condotta, una veracità che attraversa con una medesima luce la mente, il sentimento, la parola, i fatti ed i segni, che insieme definiscono una persona. San Tommaso parla di una verità vissuta (cfr. S. Tommaso, Summa Theologiae, II-IIæ, 109, 2 ad 3; et 3 ad 3); noi di solito, qualificando un uomo che pratichi questa virtù della verità nella propria vita, parliamo d’un carattere, di una personalità autentica; e, se vogliamo infondere una espressione scritturale in questo stile superiore d’essere e di agire, la chiediamo all’inesauribile e sublimante sapienza dell’apostolo Paolo, il quale ci insegna che dobbiamo vivere «la verità nella carità» (Ef 4,15): veritatem facientes in caritate crescamus in Illo per omnia, qui est caput Christus. Verità e carità, il binomio è semplice, ma psicologicamente e socialmente non facile; ma, ad ogni modo, comprensivo e rappresentativo di quelle virtù fondamentali che definiscono socialmente l’uomo ideale, cioè il cristiano, e al grado migliore, il santo.
Le virtù umane – Catechismo degli Adulti 833: La carità si incarna nell’etica: unifica, sostiene ed elèva le virtù umane, energie operative buone che abilitano a compiere il bene sotto vari aspetti specifici. Quattro di esse si chiamano “virtù cardinali”, perché fanno da sostegno e riferimento a numerose altre. Sono la prudenza, la giustizia, la fortezza e la temperanza. Tra le molte virtù, che si collegano a queste, si possono ricordare: semplicità, onestà, sincerità, lealtà, fedeltà, cortesia, rispetto, generosità, riconoscenza, amicizia, coraggio, audacia, equilibrio, umiltà, castità, povertà, obbedienza. Le buone qualità particolari danno concretezza alla perfezione cristiana. Danno alla carità un corpo e un volto.
Non è lecito giocare sulla parola… – Paolo VI (Udienza Generale, 17 Luglio 1968): La concezione del perfetto cristiano deve fare molto caso delle virtù morali proprie della natura umana, integralmente considerata (cfr. Decr. De instit. sacerdotali, n. 11). Citiamo la prima di queste virtù: la sincerità, la veracità. «Sia il vostro linguaggio, c’insegna il Signore, sì, sì; no, no» (Mt 5,37; Gc 5,12). Dobbiamo redimere il cristiano dalla falsa e disonorante opinione che a lui sia lecito il giocare sulla parola, che in lui vi sia doppiezza fra pensiero e discorso, che egli possa a fin di bene ingannare il prossimo. L’ipocrisia non è protetta dal mantello della religione (cfr. Bernanos, L’imposture). Lo stesso si dica sul senso della giustizia. Della giustizia commutativa dapprima, quella che riguarda il mio e il tuo, cioè sull’onestà nei rapporti economici, negli affari, nella rettitudine amministrativa, specialmente nei pubblici uffici; e poi sulla giustizia sociale (legale, la dicevano gli antichi, «nel senso che per essa l’uomo si conforma alla legge che ordina gli atti di tutto l’operare umano al bene comune» – cfr. S. Th. II-II, 58,6; S. Tommaso la chiama perciò una «virtù architettonica» – cfr. ibid. 60,1 ad 4). E così diciamo del senso del dovere, del coraggio, della magnanimità, dell’onestà dei costumi; e così via. Grande apprezzamento dobbiamo fare di queste virtù naturali, anche se non dimentichiamo come esse, fuori dell’ordine della grazia, siano incomplete, e spesso si associno a debolezze umane molto deplorevoli (cfr. S. Ag., De civ. Dei, V, 19; P.M. 41,166); e ricordiamo come siano, di per sé, sterili di valore soprannaturale (ibid. XX, 25; P.L. 41,656; e XXI, 16; P.L. 41,730). Insegnamenti vecchi? No, ce li ricorda il Concilio, dove dice, ad esempio: «Molti nostri contemporanei… sembrano temere che, se si stabiliscono troppo stretti legami tra l’attività umana e la religione, sia impedita l’attività degli uomini, della società, della scienza». E difende così la legittima autonomia nella questione delle realtà terrene (Gaudium et Spes 36).
La Parola di Dio commentata dai Padri della Chiesa: Necessità delle opere – “E poiché sono pochi quelli che trovano la via stretta, egli espone l’inganno di quelli che fanno finta di cercarla: Guardatevi dai falsi profeti che vengono a voi in veste di pecore [Mt 7,15], ecc. Bisogna notare che le parole adulatrici e la finta dolcezza devono essere giudicate dai frutti delle azioni, di modo che non ci aspettiamo da qualcuno che sia così come si dipinge a parole, ma come si comporta a fatti, perché molti uomini hanno la rabbia del lupo nascosta sotto una veste di pecora. Così, siccome le spine non producono uva e i rovi non [producono] fichi, siccome gli alberi cattivi non portano frutti mangerecci, egli ci insegna che presso tali uomini non c’è più posto per la realizzazione di un’opera buona e che, perciò, è dai suoi frutti che bisogna riconoscere ciascuno. Non si ottiene, infatti, il regno dei cieli soltanto a forza di parole” (Ilario di Poitiers).
Silenzio / Preghiera / La tua traccia: L’ipocrisia – Giovanni Paolo II (Omelia, 25 Ottobre 2002): La severa osservazione rivolta da Cristo alle folle si applica molto bene alla nostra epoca, in cui l’umanità ha sviluppato un’elevatissima capacità di analizzare e leggere i fenomeni per così dire “in superficie, ma tende a evitare gli interrogativi più profondi sui significati ultimi, sul senso del vivere e del morire, sul bene e sul male nella storia. L’accusa sferzante: “Ipocriti!” (Lc 12,56), uscita dalle labbra di Gesù, dice chiaramente che qui non si tratta soltanto di un non sapere giudicare ciò che è giusto (cfr. Lc 12,57), ma anche di un non volerlo accogliere. L’ipocrisia consiste cioè in una falsa sapienza, che si compiace di tante conoscenze, ma si guarda bene dal compromettersi con questioni impegnative sul piano religioso e morale.
Santo del giorno: 27 Febbraio – San Gabriele dell’Addolorata, Religioso: “Francesco Possenti nacque ad Assisi nel 1838. Perse la madre a quattro anni. Seguì il padre, governatore dello Stato pontificio, e i fratelli nei frequenti spostamenti. Si stabilirono, poi, a Spoleto, dove Francesco frequentò i Fratelli delle scuole cristiane e i Gesuiti. A 18 anni entrò nel noviziato dei Passionisti a Morrovalle (Macerata), prendendo il nome di Gabriele dell’Addolorata. Morì nel 1862, 24enne, a Isola del Gran Sasso, avendo ricevuto solo gli ordini minori. È lì venerato, nel santuario che porta il suo nome, meta di pellegrinaggi, soprattutto giovanili. È santo dal 1920, copatrono dell’Azione cattolica e patrono dell’Abruzzo” (Avvenire).
Preghiamo: Custodisci, o Padre, la tua Chiesa con la tua continua benevolenza, e poiché, a causa della debolezza umana, non può sostenersi senza di te, il tuo aiuto la liberi sempre da ogni pericolo e la guidi alla salvezza eterna. Per il nostro Signore Gesù Cristo…