febbraio, meditazioni

25 Febbraio 2018

Dal libro della Gènesi (22,1-2.9a.10-13.15-18) Il sacrificio del nostro padre Abramo: Il monte Mòria non ha una collocazione geografica chiara. Il suo nome in ebraico (Mōriyyā) significa “ordine di Jahvè”, oppure, “Dio provvede”. Su questo monte anche Noè offrì sacrifici dopo il diluvio ed è anche il monte sul quale Salomone costruirà il Tempio. Questo monte, simbolicamente, indica il cammino della fede. Abramo impiegò tre giorni per raggiungerlo. Un cammino nel buio interiore della prova, rischiarato dalla sola certezza della provvidenzialità di Dio.

Dal Salmo 115 (116) – Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi: A te offrirò sacrifici di lode. «È l’uomo interiore che ha in sé qualcosa da offrire a Dio. C’è voto quando noi offriamo a Dio qualche cosa di nostro. Cosa, dunque, Dio vuole ricevere da noi? Ascolta ciò che dice la Scrittura: Ora, Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l’ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima? (Dt 10,12). Ecco ciò che Dio richiede da noi» (Origene).

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Romani (8,31b-34) – Dio non ha risparmiato il proprio Figlio: La comunità cristiana di Roma vive un inizio difficile pressata da una parte da un giudaismo orgoglioso, dall’altra da un paganesimo forte di essere la religione dell’impero. La religione non era solo un fattore di devozione personale, a Roma era anche una questione di stato: lo stile superstizioso della religione pagana, costringeva ogni cittadino ad offrire sacrifici alle divinità protettrici dell’Urbe. Non sacrificare, era considerato una colpa. Vivere la fede nell’unico Dio, poteva dimostrarsi pericoloso, ma il cristiano che segue la via dello Spirito non deve temere nulla, solo il peccato che può separarlo dalla fonte del suo Bene.

Dal Vangelo secondo Marco (9,2-10) – Questi è il Figlio mio, l’amato: Gli evangelisti non specificano il nome del monte su cui Gesù si trasfigurò, ma una antichissima tradizione lo identifica con il monte Tabor, alto 600 metri che si innalza sulla pianura di Esdrelon. Si pensa anche possa trattarsi del monte Ermon (data la modesta altezza del monte Tabor), che è alto 3.000 metri. Ma, molto probabilmente, anche questo monte ha un  significato simbolico: Mosè ricevette le tavole della legge su di un monte, qui viene rivissuta l’esperienza del Sinai dove Gesù è sia la Legge che il nuovo Mosè.

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elìa con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rab-bì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uo-mo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Approfondimento

La nube – T. R. (Nube, Schede Bibliche. Ed Dehoniane): La bibbia considera anche le nubi un’opera di Dio; esse, obbedendo fisicamente alle leggi che sono loro preposte, lodano e celebrano il Creatore. La Bibbia, inoltre, si rifà spesso al simbolismo naturale delle nubi: leggere, mobili e di effimera natura, esse sono l’immagine delle cose che passano rapidamente; spesse e oscure, sono un’immagine di sventure e di calamità; in quanto benefiche apportatrici di pioggia, possono essere figura di realtà benefiche per l’uomo.

Le nubi sono soprattutto un simbolo della misteriosa presenza divina: esse sono considerate come il «cocchio» sul quale Iahvé viene e si manifesta, oppure – al contrario – come un velo che lo nasconde e che indica il castigo imminente. Un ruolo importante ha avuto la nube nelle teofanie dell’esodo. Essa era un simbolo della costante presenza di Iahvé e della sua protezione contro i nemici. Altre volte, con la nube si vuole sottolineare il senso della trascendenza divina: così, sul Sinai, la nube ricopre il monte e protegge la gloria di Iahvé (che scende in forma di fuoco) dagli sguardi indegni. Anche la venuta di Iahvé nel «suo giorno» è accompagnata da nubi. Nel corso della storia o alla fine dei tempi, le nubi escatologiche indicano il giudizio e la salvezza, il castigo e il nuovo esodo benefico […].

Come nell’Antico Testamento, così anche nell’episodio della trasfigurazione la nube manifesta la presenza di Dio e la gloria del suo figlio (Mt 17,5). Dopo la risurrezione, invece, la nube sottrae il Signore agli sguardi dei discepoli, mostrando loro che egli dimora nei cieli, al di là delle cose visibili (At 1,9). Nell’ultimo giorno, realizzando la profezia del figlio dell’uomo di Daniele, Cristo verrà con le nubi, che saranno insieme suo cocchio e sua scorta (Mt 24,30; 26,64).

Intanto, l’Apocalisse ci fa contemplare il figlio dell’uomo assiso su una nube bianca, giudice supremo e signore della storia (Ap 14,14).

Quanto ai credenti, anche per quel che riguarda la nube la figura lascia il posto alla realtà: mentre gli ebrei erano stati battezzati nella nube e nel mare (1Cor 10,1-2), i cristiani sono battezzati nell’acqua e nello Spirito santo. La vera nube ora è lo Spirito di Dio, che ne assicura la presenza, che rivela il Padre e guida nella verità (cfr. Gv 14,26; 16,13). Quanto all’im-magine delle nubi escatologiche, essa conserva il suo valore «per significare che nell’ultimo giorno i fedeli saranno strappati anch’essi alla terra per andare incontro al Signore che viene» (X. Léon-Dufour): «Il Signore, a un ordine, alla voce dell’arcangelo e al suono della tromba di Dio, discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti, saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria, e così saremo sempre con il Signore» (1Ts 4,16-17; cfr. Ap 11,12).

 

Commento al Vangelo

Fu trasfigurato… – La mitologia greca con il termine trasfigurazione indica il mutare aspetto o forma degli dèi; nei Vangeli il termine non ha nessuna relazione con il suo uso mitologico, perché «questa scena di gloria, per quanto passeggera, manifesta ciò che è realmente e ciò che sarà presto in modo definitivo colui che deve conoscere per un certo periodo l’abbassamento del servo sofferente» (Bibbia di Gerusalemme).

Gesù, in compagnia di Pietro, Giacomo e Giovanni, sale sopra un «alto monte, in disparte, loro soli»: la tradizione è unanime nell’indentificare l’alto monte con il Tabor. Fu trasfigurato (metemorfode): il verbo greco «indica propriamente il passaggio da una forma ad un’altra, cioè ad un modo diverso di essere, in cui la persona, pur restando se stessa, si manifesta diversa» (Adalberto Sisti, Marco). Sul Tabor, i tre Apostoli, anche se per breve tempo, contemplano il fulgore della divinità del Cristo: il Figlio della Vergine, con il candido splendore delle sue vesti (il bianco è il colore degli esseri celesti: cfr. Mc 16,5; At 1,10; Ap 1,13; 3,4-5; 4,4; 7,9), svela la sua natura celeste e ai testimoni, sbigottiti e stupefatti, manifesta di essere il «figlio dell’uomo» (Dn 7,13-14) atteso dai profeti.

Elia con Mosè: rappresentano rispettivamente i Profeti e la Legge. Appaiono come testimoni dell’adempimento della Legge e dei Profeti in Gesù, nella sua gloria.

Rabbì, è bello… facciamo tre capanne: è un riferimento alla festa delle capanne che si celebrava per ricordare il soggiorno degli israeliti nelle tende durante l’esodo dall’Egitto (cfr. Lv 23,33-43).

L’evangelista Marco, a differenza di Matteo e di Luca, vede nell’evento soprattutto una epifania gloriosa del Messia nascosto, in conformità al tema dominante del suo vangelo. Ma se si tiene conto che la rivelazione dell’identità di Gesù di Nazaret come Figlio di Dio, nelle intenzioni di Marco, è fondata nel precedente annuncio della passione (cfr. Mc 8,31) e che gli stessi Apostoli, Pietro, Giacomo e Giovanni, qualche tempo dopo, saranno compagni del Cristo nel giardino del Getsemani (cfr. Mt 26,36-46), sembra allora che Gesù intenzionalmente abbia voluto rivelare la sua gloria a coloro che avrebbero assistito più direttamente al suo annichilimento. La Trasfigurazione quindi, al dire di san Leone Magno, «mirava soprattutto a rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione della Passione volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta di Cristo».

Da una lettura attenta del brano marciano, emerge abbastanza chiaramente anche l’intenzione di affermare che Gesù è la Parola di Dio – «Ascoltatelo» (cfr. Dt 18,15) -, che riunisce in sé la Legge e i Profeti e li porta a compimento. La Parola di Gesù è parola divina e ascoltare lui significa ascoltare il Padre celeste: questa corrispondenza «è tipica anche del profeta dell’Antico Testamento; Gesù però non è riducibile a dimensioni puramente profetiche, essendo il Figlio di Dio. La sua parola è definitiva, propria dei tempi ultimi» (G. B.). Non ascoltarla avrebbe effetti catastrofici per l’uomo, sarebbe per sempre perduto (cfr. Ap 21,8).

La Parola di Gesù è fonte di vita eterna per chi la accoglie (cfr. Gv 5,24); costui non «vedrà la morte in eterno» (Gv 8,51-52). Cristo, infatti, Verbo di Dio, ha «parole di vita eterna» (Gv 6,68); le sue parole sono «spirito e vita» (Gv 6,63). Per questo occorre che l’uomo, deposta «ogni impurità e ogni eccesso di malizia», accolga con docilità la parola di Gesù che è stata seminata in lui e che può salvare la sua anima (cfr. Gc 1,21). Imperiosamente la osservi, la custodisca (cfr. Gv 14,24; 15,20; Ap 3,8), la metta in pratica (cfr. Gc 1,22) e perseveri in essa (cfr. Gv 8,31; 15,7). La voce del Padre, come avvenne per il Battesimo (cfr. Mc 1,11), conferma la filiazione divina di Gesù.

I tre discepoli, poi, «guardandosi attorno, non videro più nessuno», questo perché basta lui come dottore della legge perfetta e definitiva.

Il chiedersi «che cosa volesse dire risorgere dai morti», non «verteva circa la possibilità della risurrezione dei morti, allora ammessa comunemente da tutti nel mondo giudaico, ad eccezione dei sadducei [cfr. 12,18], ma circa l’indicazione concreta fornita dallo stesso Gesù, le cui parole “fino a quando il Figlio dell’uomo non fosse risuscitato dai morti” supponevano che il Messia dovesse soffrire e morire. E ciò per loro era ancora inconcepibile [cfr. Mc 8,32]» (Adalberto Sisti, Marco).

Nella 2Pt si fa riferimento alla Trasfigurazione, ma con intenzioni che vanno al di là del semplice ricordo; infatti, è inteso «a scalzare le obiezioni mosse contro la parusia, mostrando, sulla testimonianza dei testi oculari apostolici, che Gesù possiede già le qualità essenziali che saranno manifestate alla sua parusia: maestà, onore e gloria dal Padre, figliolanza messianica e divina» (T. W. Leaby).

Riflessione

Il nostro cammino penitenziale – Gesù prende con sé Pietro, Giacomo e Giovanni, e li conduce con sé sopra un alto monte. I tre discepoli sono stati sempre scelti come testimoni privilegiati dei momenti più intimi di Gesù, dall’inizio della vita pubblica fino alla sua manifestazione suprema, “la sua ora”, come continuamente la definisce Giovanni nel suo Vangelo. Possiamo cogliere in questa II domenica di quaresima una riflessione che non può essere messa al margine del nostro cammino penitenziale.

Il mercoledì delle Ceneri ci ha ricordato l’impegno della mortificazione “per affrontare vittoriosamente con le armi della penitenza il combattimento del male”; la I domenica di quaresima ci ha “spinto” ad entrare nel deserto per abbattere, nutriti con il Pane della Parola, l’arroganza dell’antico avversario; questa II domenica, che da antichissima tradizione è caratterizzata dal Vangelo della Trasfigurazione, ci invita a prendere una coscienza sempre più viva dell’estrema necessità di intraprendere con decisione la “via crucis” per giungere al mattino radioso della Pasqua di risurrezione.

Il vangelo della Trasfigurazione è posto tra due annunci di passione molto simili tra loro: “… ma come sta scritto del Figlio dell’uomo? Che deve soffrire molto ed essere disprezzato” (Mc 9,12; cfr. Mc 8,31). Un cammino ineluttabile per il Figlio di Dio e al quale viene associato il discepolo: “A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme” (2Pt 2,21).

“La vocazione cristiana è, possiamo dirlo, una chiamata alla sofferenza. Per Abramo non deve essere stato facile lasciare la sua terra… San Paolo scrive al carissimo Timoteo e lo invita a soffrire per il Vangelo, cioè per la predicazione, per la diffusione del regno di Dio” (P. R. Coggi, o. p.).

Ma è solo questo il cristianesimo? Sofferenza, croce, tentazione, morte? A rispondere è lo stesso episodio evangelico: un brano fortemente “lu-minoso” e che già parla di risurrezione. Quindi, il soffrire e portare la croce non sono dei valori in sé, ma solo in vista di qualcos’altro: “Tanto è il bene che mi aspetto che ogni pena mi è diletto”, diceva san Francesco. E il bene che ci aspettiamo è la nostra gloria, è la nostra risurrezione!

La Trasfigurazione, nel suo contesto storico, mirava soprattutto a rimuovere dall’animo dei discepoli lo scandalo della croce, perché l’umiliazione della Passione, volontariamente accettata, non scuotesse la loro fede, dal momento che era stata rivelata loro la grandezza sublime della dignità nascosta del Cristo. Ma, secondo un disegno non meno previdente, egli dava un fondamento solido alla speranza della Chiesa, perché tutto il Corpo di Cristo prendesse coscienza di quale trasformazione sarebbe stato oggetto, e perché anche le membra si ripromettessero la partecipazione a quella gloria, che era brillata nel Capo. E questa speranza poggia sul fondamento della Parola di Dio: “I giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Mt 13,43).

“Unito al Cristo dal battesimo (Col 2,12), il cristiano partecipa già realmente alla sua vita celeste (cfr. Ef 2,6); ma questa vita resta spirituale e nascosta, essa sarà manifesta e gloriosa solo alla parusia. L’opera di morte e di resurrezione, operata dal battesimo in maniera istantanea e assoluta sul piano mistico dell’unione al Cristo celeste (cfr. Col 2,12s.20; 3,1-4; Rm 6,4), deve realizzarsi in maniera lenta e progressiva sul piano terrestre del vecchio mondo in cui il cristiano resta immerso. Già morto in linea di principio, deve ancora morire di fatto, «mettendo a morte» di giorno in giorno il «vecchio uomo» del peccato che vive ancora in lui” (Bibbia di Gerusalemme).

Ecco, quindi, il messaggio che ci è donato in questa domenica: un messaggio di speranza con il quale ci viene rivelata la nostra felicità futura.

La Parola di Dio, senza volerci nascondere la “verità sulla nostra povera vita”, una vita a volte grigia e spesso gravida di dolori e pene, ci dona quella speranza cristiana che ci apre alla gioia della luce, della futura contemplazione.

Anche noi vedremo il volto trasfigurato di Gesù nostro Signore: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12).

La pagina dei Padri

La trasfigurazione, purificazione della Chiesa – Sant’Agostino: Abbiamo sentito, mentre si leggeva il Vangelo, il racconto della grande visione nella quale il Signore si mostrò a tre discepoli, Pietro Giacomo e Giovanni. “Il suo volto splendeva come il sole” – questo vuol significare lo splendore del Vangelo. “Le sue vesti divennero bianche come neve” – e questo sta a dire la purificazione della Chiesa, della quale il Profeta disse: “Anche se i vostri peccati saranno rossi come la porpora, li farò bianchi come la neve” (Is 1,18).

Elia e Mosè parlavano con lui, poiché la grazia del Vangelo riceve testimonianza dalla Legge e dai Profeti. Per Mosè s’intende la Legge, per Elia s’intendono i Profeti. Pietro suggerì che si facessero tre tende; una per Mosè, una per Elia, una per Cristo. Gli piaceva la solitudine del monte; lo annoiava il tumulto delle cose umane. Ma perché voleva fare tre tende? Non sapeva che Legge, Profeti e Vangelo provengono dalla stessa origine?

Difatti fu corretto dalla nube. “Mentre diceva questo una nube lucente li avvolse”. Così la nube fece una sola tenda, perché tu ne volevi tre? E una voce dalla nube disse: “Questo è il mio figlio diletto; ascoltatelo” (Mt 17,1-8). Elia parla, ma “ascoltate questo”. Parla Mosè, “ma ascoltate questo”. Parlano i Profeti, parla la Legge, ma “ascoltate questo”, voce della Legge e lingua dei Profeti. Era lui che parlava in loro, poi parlò da se stesso, quando si degnò di farsi vedere. “Ascoltate questo”; ascoltiamolo. Quando parlava il Vangelo, sappiate ch’era la voce della nube; di là è giunta fino a noi. Sentiamo lui; facciamo ciò che ci dice, speriamo quanto ci promette.

 

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