XXVIII del Tempo Ordinario (C) – 13 ottobre 2019
Dal libro dell’Èsodo (17,8-13) – Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva: Tra l’uscita dall’Egitto e l’arrivo al monte Sinai, Israele affronta nel deserto innumerevoli disagi. La sua fede e la sua stessa sopravvivenza sono sempre in pericolo. Ora deve affrontare in campo aperto gli Amaleciti e la preghiera di Mosè, continua e insistente, è l’unica carta vincente per ottenere la vittoria sui nemici. Una salutare lezione: il popolo di Dio non può compiere la sua missione se non chiede continuamente aiuto al Signore nella preghiera.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (3,14-4,2) – L’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona: Paolo traccia al suo discepolo una chiara linea di condotta: fuggire gli eretici e non lasciarsi contaminare dai loro cattivi esempi; sostenersi con l’esempio ricevuto dall’apostolo, rimanere fedele all’insegnamento tradizionale e istruirsi con le Scritture. La parola di Dio è atta a correggere, cioè efficace per combattere le eresie; idonea a insegnare e a convincere, quindi per istruire le anime; per formare alla giustizia, cioè a vivere secondo Dio e a salvare. L’istruzione biblica costituisce quel bagaglio vitale dell’uomo di Dio che lo rende atto al suo compito.
Dal Vangelo secondo Luca (18,1-8) – Dio farà giustizia ai suoi eletti che gridano verso di lui: La parabola è facile da comprendere: se persino l’uomo più iniquo cede di fronte ad una supplica incessante, Dio, che è buono, non ascolterà e salverà prontamente chi lo invoca? Ma non si confonda la giustizia umana con quella di Dio. L’agire di Dio è molto diverso da quello umano.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Approfondimento
Mosè – Salvato dalle acque (Es 2,10) è l’etimologia popolare del nome di Mosè (ebraico mosheh) a partire dal verbo mashah, «trarre». In realtà questo nome è apparentato con la parola egizia mos (è nato o neonato) che troviamo, per esempio, in Ahmosis (Ahmes), Tutmosis (Tutmes) o Ramses, nomi ben noti dei faraoni della XVIII, XIX e XX dinastia. Esodo 1,11 designa Ramses II (1290-1224) come il faraone oppressore e offre in modo approssimativo la data dell’esodo.
La nascita di Mosè ebbe luogo nel paese di Gosen, sul Delta del Nilo dove si erano stabiliti da circa quattrocento anni i discendenti di Giacobbe, come molte altre comunità di immigrati che, insieme ai numerosissimi prigionieri di guerra, fornivano una mano d’opera per le gigantesche opere pubbliche intraprese dai faraoni. A un certo punto “sorse sull’Egitto un nuovo re, che non aveva conosciuto Giuseppe” (Es 1,8) il quale, constatando che il numero dei figli d’Israele era cresciuto a dismisura e sentendo la loro presenza come un incubo (cfr Es 1,9.14), promulgò l’ordine di uccidere i maschi neonati d’Israele e gettarli nel Nilo.
Il piccolo Mosè miracolosamente sottratto alla morte, fu allevato alla corte egiziana e, sembra, preparato alla funzione di scriba in vista di un perfezionamento delle relazioni tra Egiziani e Semiti (At 7,22). Malgrado la sua educazione egiziana, Mosè non si staccò dal suo popolo e un giorno arrivò a prendere le difese di un Ebreo in lite con un Egiziano, uccidendo il suo avversario (cfr Es 2,11s). Per sfuggire al castigo, dovette rifugiarsi nel deserto di Madian, dove soggiornò per molto tempo presso la famiglia di Ietro, sacerdote di Madian, del quale sposò la figlia Zippora: “Ella gli partorì un figlio ed egli lo chiamò Gherson, perché diceva: «Sono un emigrato in terra straniera!»” (Es 2,22).
Mentre pascolava il gregge di Ietro ai piedi del “monte di Dio l’Oreb” (Es 3,1), gli apparve Iahve “in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto” (Es 3,2); il Signore gli affidò il compito di andare dal faraone e chiedergli di far uscire il suo popolo dall’Egitto, dove era in schiavitù e di guidarlo verso un paese «dove scorre latte e miele» (Es 3,8). E Mosè, dopo molta resistenza a questo incarico, ritornò in Egitto e si presentò al faraone. Il libero ingresso di Mosè a corte si spiega con la sua educazione egiziana; d’altra parte il faraone sotto il quale era dovuto fuggire era morto (cfr Es 2,23). Mosè chiese il permesso di recarsi col suo popolo a tre giorni di cammino nel deserto per sacrificare a Dio.
Dio, a motivo del rifiuto del faraone di lasciare andare il popolo israelita, colpì l’Egitto con dieci piaghe che terminarono con la liberazione di Israele. La marcia verso la terra promessa durò quarant’anni e si concluse con la morte di tutti coloro che erano usciti dall’Egitto a motivo della loro infedeltà. Soltanto la nuova generazione vi poté entrare. Mosè morì sul monte Nebo, contemplando da lontano la terra promessa (cfr Dt 31,16; 34,5). Anni prima, Mosè, irritato dai continui malumori del popolo d’Israele, aveva gravemente dubitato della magnanimità di Iahve (cfr Nm 20,12) e per questo gli venne sbarrato l’accesso alla terra promessa: lo irritarono “alle acque di Meriba e Mosè fu punito per causa loro, perché avevano inasprito l’animo suo ed egli disse parole insipienti” (Sal 106,32-33).
L’Antico Testamento parla di lui come del servo di Dio per eccellenza (cfr Sal 105,26; 106,23), ma i profeti raramente lo nominano preferendo attribuire direttamente a Iahve la formazione miracolosa del popolo ebraico durante l’Esodo.
La vera personalità di Mosè si coglie sopra tutto nel suo rapporto con il Signore, suo Dio. Per questo viene chiamato “uomo di Dio” (Dt 33,1; 1Cron 23,14; Sal 90,1), “uomo di pietà, amato da Dio e dagli uomini” (Sir 45,1; At 7,20) e il confidente di Dio (cfr 1Re 8,56; Gv 9,29).
Molti tratti accomunano Mosè al Cristo. Senza volere entrare nei particolari, una prima somiglianza la si riscontra tra il racconto della nascita e dell’infanzia di Mosè e la narrazione della nascita e l’infan-zia di Gesù (cfr Es 1-2 con Mt 1-2). Un’altra somiglianza la riscontriamo nei discorsi e soprattutto nella missione: come Mosè è stato mandato da Dio per liberare il popolo dalla schiavitù dell’Egitto (cfr Es 3,10-15; Nm 16,28-30) così Gesù è stato mandato da Dio in servizio e a favore di tutti gli uomini (cfr Lc 4,18).
Potremmo trovare molti altri punti d’incontro, ma è chiaro che tra Gesù e Mosè vi è una distanza immensa: come il sacrificio della Nuova Alleanza è superiore a quelli dell’Antica Alleanza e il nuovo patto è superiore a quello antico. Superiore è la nuova legge, come la morale del nuovo Israele deve essere superiore a quella dell’antico Israele (cfr Eb 3,1-6).
Commento al Vangelo
Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra? – Prima di entrare nei dettagli bisogna ricordare che il racconto lucano è una parabola e che «la parabola è una storia che sovente comprende alcuni dati umoristici con lo scopo di far risaltare un’idea fondamentale. Bisognerà perciò stare attenti a non architettare teorie sulla base di un solo dettaglio. Che il giudice di questa parabola sia un disonesto è provocante, ma ciò non ha nulla a che vedere con Dio» (I Quattro Vangeli Commentati, LDC).
Il brano lucano va posto nel suo contesto e cioè tra il diciassettesimo e il ventunesimo capitolo che sono dominati da una domanda insistentemente posta a Gesù: «Quando verrà il Regno di Dio?» (Lc 17, 20). La risposta di Gesù non lascia spazio a dubbie interpetrazioni: il «Regno di Dio in parte è gia presente, in parte deve ancora venire. Nel suo primo stadio, il regno “è già in mezzo a voi”; nel suo secondo stadio esso verrà di sorpresa. Nel tempo intermedio i credenti devono cooperare al suo avvento e perseverare nella preghiera» (Adrian Schenker – Rosario Scognamiglio).
La parabola odierna si inserisce in questa cornice di tempo intermedio, che spiega così la domanda finale, apparentemente senza alcun nesso immediato con la parabola: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?».
Il fine della parabola poi è abbastanza chiaro: Gesù vuole insegnare ai suoi discepoli la necessità di «pregare sempre, senza stancarsi mai» e di attendere con perseveranza il suo ritorno perché Egli certamente ritornerà come giudice degli uomini.
Luca ama soffermarsi sulla preghiera di Gesù: è l’orante perfetto in continua comunione di amore con il Padre. Gesù prega sopra tutto nei momenti più importanti della sua vita: è orante nelle acque del Giordano (Lc 3,21); è orante sul monte Tabor (Lc 9,28); prega prima di compiere il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci (Lc 9,16); prega nel Cenacolo quando istituisce l’Eucarestia (Lc 22,19-20); prega prima di consegnarsi alla sua beata Passione (Lc 22,39-46); confitto sulla croce prega per i suoi aguzzini (Lc 23,34); muore pregando: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46).
La vedova fa parte degli anawim, i poveri di Dio. Spesso abbandonati alla loro sorte vengono maltrattati, vessati, derubati. Un’accusa mossa ai Farisei è proprio quella di divorare le case delle vedove (cfr Lc 20,47) con pretestuosi e interessati consigli.
Nonostante che la legge ammonisse i giudici ad emettere giuste sentenze (cfr Dt 16,18), nella prassi contavano molto le regalie e le influenze degli amici potenti. La sentenza iniqua che condannò Nabot alla lapidazione fu confezionata solo per soddisfare i capricci del re Acab e della regina Gezabele (cfr 1Re 21,1-16). Anna, Caifa e compagni di congrega si serviranno di falsi testimoni per emettere la sentenza di morte che porterà sulla croce il Figlio di Dio (Mt 26,60-61).
Che il giudice sia iniquo quindi non sorprende chi ascolta la parabola, la sorpresa sta nel fatto che alla fine il giudice, pur consapevole della sua empietà e del suo disprezzo verso il prossimo, si arrenda alle suppliche della vedova. Una manovra meschina pensata unicamente per liberarsi delle noiose insistenze della donna.
Che le istanze fossero veramente insistenti a suggerirlo è il verbo che Luca usa: hypopiazo, alla lettera «sbattere sotto gli occhi».
Nel commentare la parabola, Gesù mette in evidenza il punto focale del racconto: se quel giudice disonesto e crudele accondiscese ad aiutare una povera vedova unicamente per togliersela di torno, come potrebbe Dio, buono, «ricco di misericordia» (Ef 2,4), non aiutare i suoi eletti che si rivolgono a lui «giorno e notte» con grande fede?
Un’altra grande differenza tra i due attori principali della parabola sta nel loro intervenire: il giudice per la sua iniquità ha obbligato la vedova ad attendere penosamente la sentenza, Dio che è buono (cfr Lc 18,19) invece interverrà prontamente.
Rifacendoci sempre alla lingua greca, l’espressione corrispondente all’avverbio prontamente può significare sia la prontezza di Dio, sia improvvisamente, di sorpresa: in tal caso il monito che Gesù rivolge al suo uditorio – Dio farà loro giustizia prontamente – assume una valenza preziosissima: è un’incitazione all’attesa e alla vigilanza escatologica: «Sì, vieni presto, Gesù!» (Ap 22,20).
Se vale quest’ultima lettura, allora si comprende nel suo significato più genuino la domanda di Gesù «Il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?». Negli ultimi tempi la fede avrà vita difficile, ma sarà salvato chi vigila nella preghiera con spirito pentito.
Riflessione
… dato che questa vedova mi dà tanto fastidio – L’insistenza della vedova vuole suggerire, anche ai lettori più distratti, che a guidare e a illuminare la preghiera deve essere sempre e soltanto la fede.
La fiducia in Dio e nella sua azione pronta è alla radice della preghiera autentica. Avere fiducia in Dio significa avere la certezza che Lui ci ascolta molto di più di quanto possano fare gli uomini ed è sempre pronto a donarci quanto gli chiediamo nella preghiera. Ma a volte questa «fiducia filiale è messa alla prova nella tribolazione. La difficoltà principale riguarda la preghiera di domanda, nell’intercessione per sé o per gli altri. Alcuni smettono perfino di pregare perché, pensano, la loro supplica non è esaudita» (CCC 2734).
Il Nuovo Testamento è ricco di preghiere di domanda. Ma si deve partire da una povertà: noi non «sappiamo infatti come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26), e quindi occorre farsi guidare dallo Spirito Santo. In Gc 4,2-3 si riprovano le domande, fatte male, grondanti di egoismo, tese solo al soddisfacimento dei propri piaceri: «Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni».
La preghiera è ben fatta quando l’uomo assoggetta la sua volontà a quella di Dio, praticamente quando le sue richieste sono fatte in sintonia con i desideri divini. Ora, per conoscere i desideri di Dio occorre pregare con il suo Spirito di libertà: «Il Padre nostro sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che gliele chiediamo, ma aspetta la nostra domanda perché la dignità dei suoi figli sta nella loro libertà. Pertanto è necessario pregare con il suo Spirito di libertà, per poter veramente conoscere il suo desiderio… Il nostro Dio è “geloso” di noi, e questo è il segno della verità del suo amore. Entriamo nel desiderio del suo Spirito e saremo esauditi» (CCC 2736-2737). Ma a volte, pur avendo rispettato questa regola, Dio tace; un silenzio che scandalizza l’uomo e sconvolge il cuore dell’uomo giusto.
Il silenzio di Dio è sempre altamente pedagogico e a volte è teso a spronare i credenti «a ripetere la loro preghiera per scoprire in se stessi il desiderio di ciò che domandano, divenendo in tal modo più ricettivi all’azione di Dio che li esaudirà» (D. E.). E all’uomo triste perché non ha ricevuto quanto aveva chiesto nella preghiera, Evagrio Pontico suggerisce: «Non rammaricarti se non ricevi subito da Dio ciò che gli chiedi; egli vuole beneficiarti molto di più, per la tua perseveranza nel rimanere con lui nella preghiera».
Ma c’è un’ultima nota: il cristiano sa che la sua preghiera non può aver valore se non precede il perdono al prossimo: «Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati» (Sir 28,2; cfr Mc 11,25). Più sconvolgente e perentorio l’insegnamento di Gesù: «Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
La riconciliazione è la buona acqua che impastata con la bianca farina della comunione fraterna fa il pane soave della preghiera, pane profumato da offrire a Dio e a lui tanto gradito (cfr Ap 5,8).
La pagina dei Padri
Valore della preghiera – Tertulliano: Nel Vecchio Testamento la preghiera infliggeva piaghe, disperdeva eserciti nemici, sospendeva l’irrorazione delle piogge. Ora invece la preghiera allontana ogni ira di Dio, veglia per i nemici, supplica per quelli che perseguitano.
È strano che strappi acque celesti, quella preghiera che poté far venire fuoco dal cielo? Solo la preghiera vince Dio; ma Cristo non volle che operasse alcun male, le diede solo la virtù di fare il bene. Perciò non sa far altro che richiamare i defunti dal cammino della morte, rinforzare i deboli, restaurare i malati, liberare gli indemoniati, aprire le carceri, sciogliere le catene degli innocenti. È la preghiera che cancella i delitti, allontana le tentazioni, pone fine alle persecuzioni, consola i pusillanimi, dà gioia ai forti, guida i pellegrini, doma le tempeste, blocca i ladri, nutre i poveri, consiglia i ricchi, rialza coloro che son caduti, sostiene quelli che stanno per cadere, consolida quelli che stanno in piedi.
La preghiera è la fortificazione della fede, armatura contro il nemico che ci aggredisce da ogni parte.
Ricordiamola quando siamo di sentinella di giorno e quando vegliamo di notte. Sotto le armi della preghiera custodiamo lo stendardo del nostro imperatore, aspettiamo in preghiera la tromba dell’angelo.
Pregano anche tutti gli angeli, prega ogni essere creato, pregano le greggi e le bestie feroci e s’inginocchiano, e uscendo dalle stalle e dalle tane si voltano al cielo e a loro modo muovono il loro spirito. Anche gli uccelli, appena svegli, s’innalzano verso il cielo, stendono le ali in forma di croce e dicono qualcosa che sembra una preghiera. Che volete di più per il valore della preghiera? Anche il Signore pregò, e a lui sia lode e benedizione nei secoli dei secoli.