Dal libro del profeta Amos (6,1a.4-7) – Ora cesserà l’orgia dei dissoluti: Il profeta Amos, con parole forti, rimprovera Israele perché, dimenticando l’allenza con il Signore, è sprofondato nelle paludi del lusso, del godimento e del benessere. Il castigo di Dio non tarderà a raggiungere il popolo eletto per punirlo esemplarmente.
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo a Timòteo (6,11-16) – Conserva il comandamento fino alla manifestazione del Signore: L’apostolo Paolo non ha dubbi, per entrare nel regno di Dio è necessario attraversare molte tribolazioni (cfr At 14,22). È la logica della Croce, la vita cristiana è milizia.
Dal Vangelo secondo Luca (16,19-31) – Nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti: La parabola evangelica vuol mettere in evidenza la potenza seducente del denaro. Il ricco epulone è reso cieco letteralmente dalla ricchezza: mentre brama divertirsi ingozzandosi, i suoi occhi non scorgono più il povero Lazzaro, «bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco». Dopo la morte le sorti si ribaltano: il ricco è nei tormenti, il povero nella gioia. La parabola non condanna il denaro in se stesso, ma il suo uso empio e il suo fascino luciferino che può travolgere il cuore e la mente degli uomini. Cristo non condanna la gioia terrena, ma la mancanza di pietà e di carità verso i più indigenti. Occorre quindi mettersi – come suggerisce san Paolo – in un serio cammino ascetico.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C’era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: “Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma”. Ma Abramo rispose: “Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi”. E quello replicò: “Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch’essi in questo luogo di tormento”. Ma Abramo rispose: “Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro”. E lui replicò: “No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno”. Abramo rispose: “Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti”».
Approfondimento
Elemosina – L’ebraico non possiede un termine specifico per designare l’elemosina. Il termine deriva dal greco Eleêmosynê il cui significato è misericordia, compassione, specialmente verso i poveri, dallo stesso tema di Eleemon pietoso (Eleos pietà; Eleèo il cui significato è aver compassione).
Come il Signore Dio è «misericordioso e pietoso» verso tutti (Es 34,6), così gli Israeliti devono essere compassionevoli e pietosi verso i loro fratelli, e il miglior modo per testimoniarlo concretamente è l’elemosina: un atto di amore che deve superare anche il gretto nazionalismo di cui era imbevuto il popolo: «Al povero stendi la tua mano, perché sia perfetta la tua benedizione. La tua generosità si estenda a ogni vivente» (Sir 11,32-32).
L’elemosina, con la preghiera e il digiuno, costituisce quella triade di atti (cfr Tb 12,8), che la sacra Scrittura chiama «giustizia» (cfr Mt 6,1-18). L’elemosina viene suggerita, in modo particolare, a favore dei più deboli, dei poveri, degli indigenti, dei bisognosi. Quando è il tempo della vendemmia o della mietitura, la Legge ammonisce di lasciare parte del raccolto per il povero (cfr Lv 19,10; 23,22; Dt 24,19-22; Rut 2) e deve essere versata una decima triennale per sostentare gli orfani, le vedove, i leviti, gli stranieri (cfr Dt 14,28s).
All’elemosina si conferisce un valore importante perché si ha la profonda convinzione che essa preserva dall’indigenza, libera dalla morte e salva da ogni disgrazia (cfr Pr 28,27; Tb 4,10; Sir 29,12).
Gradita a Dio, purifica da ogni peccato così come suggerisce Daniele al re Nabucodònosor: «Perciò, re, accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere lunga prosperità» (Dn 4,23; cfr Tb 12,9; Sir 3,29). Non si tratta di semplice filantropia, ma di atto propriamente religioso: inserita «nel codice dell’alleanza [cfr Dt 15,11] diviene un atto di culto, costituisce perciò una componente importante delle solennità religiose del popolo d’Israele [cfr Dt 16,10s; Tb 2,1s], accompagnandosi anche a celebrazioni liturgiche straordinarie [cfr 2Sam 9,9; 2Cro 30,21-26; Ne 8,10]» (I. Roncagliolo).
Anche nel Nuovo Testamento l’elemosina è uno dei pilastri della vita religiosa (cfr Mt 6,1-18). Non deve essere ostentata. Deve essere praticata in modo disinteressata, senza nulla aspettare in cambio e persino senza misura (Lc 6,30.35).
La continuità tra l’Antico e il Nuovo Testamento viene spezzata da quelle sfumature che Gesù porta a questa pratica: praticare l’ele-mosina, con l’Incarnazione del Verbo, diventa un fatto che tocca le radici della vita dell’uomo perché diventa accettazione del modo di vivere del Cristo, il quale «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà» (2Cor 8,9). È far sì che Cristo diventi la vera ed unica ricchezza: «Siamo […] poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!» (2Cor 6,10). Da qui il seguire Cristo senza rimpiangere i propri beni (cfr Mt 19,21s).
Poiché l’uomo è trasformato in Cristo (cfr Rm 8,29; 2Cor 3,18), l’elemosina, fatta per amore di Cristo, è amore per Cristo, infatti, attraverso i fratelli beneficati il credente raggiunge Gesù in persona: «In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40). La Chiesa primitiva ha compreso bene l’insegnamento di Gesù e lo ha dato ad intendere non discostandosi mai dai suoi ammaestramenti.
Commento al Vangelo
Il ricco e il povero Lazzaro – La parabola è propria di Luca. Se del povero si conosce il nome, cosa insolita, il ricco gaudente è anonimo.
All’uomo ricco il nomignolo, Epulone, dal latino èpulae (vivan-de), gli viene dal suo passatempo preferito: quello di fare festa ogni giorno con grandi banchetti (epulábatur cotidie spléndide). A Roma furono detti Epulones i membri di quattro grandi corporazioni religiose, il cui ufficio principale era quello di preparare un sontuoso banchetto in onore di Giove e per i dodici Dèi, in occasione di pubbliche feste o calamità: le statue delle divinità erano poste in lettucci dirimpetto a tavole abbondantemente imbandite di cibi succulenti e bevande inebrianti, che poi gli Epuloni consumavano.
Il nome del povero è Lazzaro. Luca forse lo ricorda unicamente per la sua etimologia: Dio ha soccorso. Una sottolineatura per suggerire che il Signore Dio non è sordo alle preghiere dei poveri ed è pronto ad intervenire a suo favore: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce» (Sal 34,7). È uno degli ‘anawin (poveri) dell’Antico Testamento che, secondo la legge, devono essere amati e protetti (cfr Es 22,21-24; Am 5,10-12; Is 1,17; 58,7).
La ricchezza dell’epulone è sottolineata anche dalla sontuosità delle sue vesti: «indossava vestiti di porpora e di lino finissimo». Le vesti di porpora, di colore rosso acceso, e di lino assai fine, erano indossate dai re e dai notabili che in questo modo ostentavano il loro rango.
La ricchezza dell’epulone è così grande quanto il suo egoismo. Ancora una volta a calcare la scena evangelica è un uomo incolpevole. Non è un pubblicano, non è uno strozzino, non è un ladro; il suo unico peccato è quello di non accorgersi di Lazzaro «bramoso di sfamarsi degli avanzi che cadevano dalla mensa» e la cui unica ricchezza era costituita da quelle piaghe che fasciavano dolorosamente tutto il suo povero corpo.
Gli unici compagni di Lazzaro sono i cani randagi considerati animali impuri (cfr Sal 22,17.21; Pro 26,11; Mt 7,6).
Luca non ha intenzione di dare informazioni sull’aldilà anche se la parabola può offrirsi a questa interpretazione. Per esempio, il giudizio subito dopo la morte e la sua irrevocabilità. Un «luogo» di pene e un «luogo» di beatitudine. Pene e beatitudine presentate come castighi e premi eterni.
Il tema è invece il fascino delle ricchezze che corrompono il cuore: bisogna imparare a trattarle con estrema cautela perché chi «ama il denaro, mai si sazia di denaro e chi ama la ricchezza, non ne trae profitto» (Qo 6,9). Invece di perdere il tempo in banchetti e bagordi, è urgente che l’uomo utilizzi il tempo che gli è dato per convertisi. Un buon funerale è assicurato a tutti, ma quello che conta è il dopo. Il «tragico è chi ha il cuore appesantito dai beni terreni, sedotto dai piaceri di questo mondo, reso sordo dalle mille voci seducenti che lo allettano non può percepire e recepire l’invito alla conversione» (C. Ghidelli). Da qui la necessità e l’urgenza di farsi poveri per il regno dei Cieli (cfr Lc 6,20-26).
Ma non bisogna fare l’apologia della povertà. La parabola non va considerata come consolazione alienante per i poveri di questo mondo. La religione non è l’oppio che addormenta e tiene buoni i miseri. Lazzaro non scelse la povertà, ma seppe accettare il suo stato miserevole trasformandolo in una corsia privilegiata che lo portò nel seno di Abramo. Qui c’è un’altra lezione: è la stessa esistenza quotidiana a fornire all’uomo «la palestra di addestramento nella virtù, a imporgli rinunce e privazioni di ogni genere, a esercitarlo nella pazienza, nell’umiltà e nella ubbidienza» (A. M. Cànopi).
È la grande lezione che insegna ad accontentarsi di quello che si ha (cfr Pro 30,7-9; 1Tm 6,8) condividendolo gioiosamente con i poveri; di saper attendere con fiducia la ricompensa che viene unicamente da Dio, quasi sempre solo dopo questa vita; di saper gioire anche nelle prove: «Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l’opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla» (Gc 1,2-4). Tutto qui la «morale» della parabola.
Riflessione
«Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui; perché tutto quello che è nel mondo, la concupiscenza della carne, la concupiscenza degli occhi e la superbia della vita, non viene dal Padre, ma dal mondo» (1Gv 2,9-10) – Una battaglia senza quartiere. Una lotta che non conosce soste, una battaglia contro le potenze che guidano il mondo: denaro, sensualità, seduzione delle apparenze, orgoglio che nasce dal possesso dei beni terreni. Le vere realtà sono altre (cfr 2Cor 4,18; Eb 11,1.3.27; ecc.). Altro che le allegre compagnie dei buontemponi che beati e spensierati canterellano al suono dell’arpa per ammazzare il tempo.
La drammatica condizione del mondo che giace sotto il potere del maligno (cfr 1Gv 5,19) fa della vita dell’uomo una lotta: «Tutta intera la storia umana è infatti pervasa da una lotta tremenda contro le potenze delle tenebre; lotta incominciata fin dall’origine del mondo, che durerà, come dice il Signore, fino all’ultimo giorno. Inserito in questa battaglia, l’uomo deve combattere senza soste per poter restare unito al bene, né può conseguire la sua interiore unità se non a prezzo di grandi fatiche con l’aiuto della grazia di Dio» (GS 17).
Parole che mettono bene in evidenza quanto sia penoso, e anche difficile, conseguire la salvezza eterna. Qui soggiace la comprensione della vocazione cristiana, che è quella «dell’atletismo, che suppone un esercizio e un allenamento continuo» (Vincenzo Raffa).
Per comprendere a quale lotta tremenda si riferisce il Concilio dobbiamo richiamare alla nostra memoria il peccato di Adamo e la colluvie di peccati che subito dopo ammorbò la storia dell’uomo: «Il peccato di Adamo ha avuto delle conseguenze sull’umanità. Ma hanno conseguenze anche gli altri peccati che […], sono alla loro volta conseguenza della forza di peccato che ha scatenato il primo peccato. La privazione della santità e della giustizia originarie ha reso più fa-cile il fatto che ognuno degli uomini sia caduto nel peccato personale, e quest’ultimo, a sua volta, non ha potuto non avere conseguenze negative sugli altri esseri umani. A partire dal primo peccato il “pec-cato del mondo” aumenta come una palla di neve che cade giù per il pendio» (Luis F. Ladaria).
È in conseguenza del peccato di Adamo e di Eva che «il diavolo ha acquistato un certo dominio sull’uomo, benché questi rimanga libero. Il peccato originale comporta “la schiavitù sotto il dominio di colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo”» (CCC 408).
Questo potere reale di satana è la causa della lotta contro la potestà del Male che Cristo Gesù ha iniziato e che durerà fino alla fine dei tempi. L’uomo non può sottrarsi a questa lotta.
Per non perdere i «parrocchiani», oggi, c’è il cattivo gusto di smerciare un cristianesimo a buon mercato. Si teme di insegnare che ogni vittoria morale esige una strategia appropriata e questa suppone un’esatta valutazione e conoscenza del come accingersi all’impre-sa (cfr Lc 14,28).
C’è la paura di parlare di satana, il «principe di questo mondo» (Gv 12,31; 16,11; Ef 2,2), colui che semina la zizzania nel campo di Dio (Mt 13,25), colui che sa mascherarsi «da angelo di luce» (2Cor 11,14) e che come «leone ruggente va in giro, cercando chi divorare» (1Pt 5,8).
C’è la paura di dire che il «Male oggi non è più soltanto una deficienza, ma un’efficienza, un essere vivo, spirituale, pervertito e pervertitore», la cui azione si fa più palpabile «dove la negazione di Dio si fa radicale, sottile ed assurda, dove la menzogna si afferma ipocrita e potente, contro la verità evidente, dove l’amore è spento da un egoismo freddo e crudele, dove il nome di Cristo è impugnato con odio cosciente e ribelle (cfr 1Cor 16,22; 12,3), dove lo spirito del Vangelo è mistificato e smentito, dove la disperazione si afferma come l’ultima parola» (Paolo VI).
C’è il timore di dire apertamente che dopo il peccato originale l’uomo è più vulnerabile, perché il peccato abita in lui (cfr Rm 7,20). Si teme di dire apertamente che dopo la morte, e dopo una vita senza amore, c’è la possibilità di finire all’inferno, proprio come il ricco epulone!
La pagina dei Padri
“Il Signore guarda il cuore” (1Sam 16,7) – Sant’Agostino: Forse quel povero venne preso dagli angeli a causa della sua miseria, e quel ricco venne gettato ai supplizi per colpa delle sue ricchezze? Dobbiamo comprendere che in quel povero venne premiata l’umiltà, come in quel ricco venne condannata la superbia.
Brevemente vi dimostro che non le ricchezze ma la superbia fu punita in quel ricco. Di quel povero si dice che fu sollevato nel seno di Abramo; ma Abramo, secondo la Scrittura, possedeva lui stesso grande quantità d’oro e d’argento ed era stato ricco in terra (cfr Gen 13,2).
Se chi è ricco viene gettato fra i tormenti, in qual modo Abramo poté precedere il povero, tanto da accoglierlo nel suo seno? Ma Abramo, pur in mezzo alle ricchezze, era povero, umile, ossequiente a ogni comandamento [divino] e obbediente. A tal segno disprezzava le ricchezze, da immolare, per ordine del Signore, anche il suo figlio, per il quale teneva in serbo le ricchezze (cfr Gen 22,4).
Imparate dunque ad essere poveri ed indigenti: sia che possediate qualcosa in questo mondo sia che non ne possediate. Puoi trovare, infatti, anche dei mendicanti superbi, come puoi trovare umile un uomo pieno di ricchezze. “Dio resiste ai superbi”, tanto se vestiti di seta quanto se coperti di stracci; “agli umili invece dà la sua grazia” (Gc 4,6), sia che posseggano ricchezze in questo secolo sia che non ne posseggano. Dio guarda nell’intimo; ivi pesa, ivi scruta.