Dal libro della Sapienza (9,13-18) – Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?: Il libro della Sapienza vuol porre dei paletti intorno all’uomo affinché funzionino come freno alla sua smodata, e a volte sfacciata arroganza o autoesaltazione. Anche se capace di raggiungere profonde conoscenze nei diversi rami dello scibile umano, l’uomo da se stesso è incapace di conoscere la volontà di Dio, cosa estremamente necessaria perché egli si autorealizzi innanzi tutto come progetto di Dio. L’uomo è limitato nella capacità conoscitiva da innumerevoli e gravi difficoltà concrete di ordine fisico, psichico e morale: la fragilità della vita, il peccato, il deleterio influsso della società…, ha bisogno, quindi, della sapienza divina per entrare nel mondo di Dio, per conoscersi e per conoscere il suo cammino.
Dalla lettera di san Paolo apostolo a Filèmone (9b-10.12-17) – Ac–coglilo non più come schiavo, ma come fratello carissimo: Le pene inflitte agli schiavi, considerati beni patrimoniali, erano severissime. Fustigati per un nonnulla o condannati ai lavori più duri, come ad esempio girare, stando in catene, la pesante ruota di pietra vulcanica del mulino. Quelli che tentavano la fuga erano marchiati a fuoco in fronte e solitamente sottoposti al crurifragium che era la frattura violenta degli stinchi. Veniva punito anche chi accoglieva i fuggitivi. Così si comprende perché Paolo si premura a rimandare Onèsimo, uno schiavo fuggitivo che egli aveva convertito durante la sua prigionia romana, al suo vecchio padrone, Filemone, ricco proprietario che si era fatto cristiano. L’apostolo invita il padrone a trattarlo «come un fratello carissimo» e «come se stesso» (Fm 16-17). Seppure senza condannare direttamente l’istituto della schiavitù, Paolo ne cambia l’anima: lo schiavo non è più una cosa, è un fratello.
Dal Vangelo secondo Luca (14,25-33) – Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo: Con parole chiare e mediante due severissime parabole vengono enunciate le condizioni poste a chi intende seguire Gesù come discepolo: distacco dai parenti, portare la propria croce, rinunziare ai beni.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Approfondimento
La schiavitù – La schiavitù in Israele, un’istituzione ritenuta naturale per gli Israeliti come per gli altri popoli dell’antichità, era indubbiamente praticata in maniera più liberale, più umana, che altrove (cfr Sir 33,25-30). La legislazione israelitica è stata sempre benevola riguardo agli schiavi il cui numero, del resto, non è mai stato considerevole (cfr Ne 7,67). Bisogna tuttavia distinguere nettamente gli schiavi israeliti da quelli di origine straniera. Quest’ultimi provenivano dai mercati dove venivano comprati, 30 sicli d’argento in media (cfr Es 21,32), o dalle tante battaglie come bottino. Molti altri erano figli di schiavi nati in cattività (cfr Gen 17,12; Qo 2,7). Lo schiavo straniero era proprietà assoluta del suo padrone che poteva rivenderlo, darlo, trasmetterlo in eredità, ma non gli era permesso di ucciderlo (cfr Es 21,20). Se lo schiavo periva sotto i colpi con cui poteva essere punito, o se moriva durante lo stesso giorno in cui era stato battuto, il padrone poteva essere condannato; tuttavia, se la morte sopravveniva solo più tardi, la giustizia non interveniva più, poiché il padrone era considerato come sufficientemente punito dallo stesso danno che subiva (cfr Es 21,21). Se lo schiavo in seguito ad un trattamento brutale restava mutilato, perdita d’un occhio o anche di un dente, aveva diritto all’immediata liberazione (cfr Es 21,26-27).
Contrariamente a quanto accadeva a Roma, la legge ebraica non ammetteva che uno schiavo fuggiasco venisse reso al suo padrone (cfr Dt 23,16-17); beneficiava d’una specie di diritto d’asilo, perché si pensava che non sarebbe scappato senza un motivo grave, ma forse questa disposizione legale valeva solo per i fuggiaschi venuti dall’e-stero (cfr Gen 16,6; 1Sam 25,10; 1Re 2,39).
Lo schiavo godeva del giorno del riposo (cfr Es 20,10; 23,12) e, una volta circonciso (cfr Gen 17,12-13), partecipava ai culti e alle feste religiose (cfr Es 12,44; Dt 12,12; 16,11.14): veniva considerato come un membro della famiglia, al punto che il servo poteva mangiare le “cose sante” (Lv 22,11).
Gli schiavi intelligenti e di buona condotta e particolarmente quelli che erano nati nella casa del padrone (cfr Gen 24,2; Mt 24,45), godevano molta fiducia da parte di esso; il loro parere era richiesto ed ascoltato (cfr Gdc 19,11; 1Sam 9,6; 25,14s) ed essi potevano anche essere incaricati di uffici e di missioni delicati (cfr Gen 24,1s).
Godendo d’una buona reputazione (cfr 1Sam 9,22), alcuni di loro finivano col possedere essi stessi degli schiavi (cfr Gen 9,25; 2Sam 9,10), sposavano la figlia del loro padrone (cfr 1Cr 2,34-35) e beneficiavano dei suoi lasciti (cfr Gen 15,2; Pr 17,2). Una schiava poteva anche divenire la moglie del figlio del proprio padrone (cfr Es 21,9).
Israele, nei suoi rapporti con gli schiavi, doveva ricordarsi che anch’esso era stato prigioniero in Egitto (cfr Dt 5,15; 15,15; 16,12; 24,18). Giobbe stava molto attento affinché non fossero disprezzati i diritti dei suoi schiavi (cfr Gb 31,13). Il libro dei Proverbi non vuole che si calunni uno schiavo presso il suo padrone (cfr Pr 30,10). La situazione degli schiavi israeliti era certamente migliore di quella degli schiavi d’origine straniera; la legge s’occupava attentamente della loro sorte.
Un Israelita poteva essere costretto dalla miseria, o per pagare i suoi debiti, a vendere i suoi figli come schiavi o a vendersi lui stesso (cfr Es 21,2; Dt 15,12; Lv 25,39; 2Re 4,1); così il ladro incapace di restituzione doveva pagare con la sua persona (cfr Es 22,3). Dopo sei anni di servizio e nel corso del settimo anno, lo schiavo israelita, a differenza di quelli stranieri, poteva riacquistare la libertà (cfr Dt 15,12). Se invece preferiva restare nella casa del suo padrone, questi gli forava con la lesina il lobo dell’orecchio, segnandolo così col sigillo indelebile della schiavitù a vita (cfr Dt 15,16-17). La legge ebraica, inoltre, esortava il padrone a non rinviare lo schiavo liberato con le mani vuote, ma a fargli qualche regalo in natura (cfr Dt 15,13), indubbiamente, per facilitargli il ritorno alla vita libera. Un Israelita che si era venduto ad uno straniero che abitava nel paese aveva la facoltà di riscattarsi e ciò prova ch’egli poteva metter da parte qualche cosa, o farsi riscattare da un parente (cfr Lv 25,47-48). Ma non sempre, purtroppo, tutte queste leggi furono rispettate (cfr Ger 34,8-22).
Nel Nuovo Testamento si parla spesso di schiavi e a san Paolo piace dirsi schiavo di Gesù Cristo (cfr Rm 1,1; Fil 1,1). Numerose sono le esortazioni dell’apostolo Paolo indirizzate tanto agli schiavi che ai loro padroni (cfr Ef 6,5-8; Col 3,22-24; Tt 2,9-10). Bella e commovente la lettera a Filemone che in realtà è un biglietto di raccomandazione in favore d’uno schiavo fuggiasco. Gesù e gli autori neotestamentari non hanno mai attaccato direttamente la schiavitù, ma la loro condanna era implicitamente contenuta nel loro insegnamento liberatorio, il quale dichiarava, senza mezzi termini, l’uguaglianza di tutti gli uomini dinanzi a Dio (cfr Col 3,11).
Commento al Vangelo
Chi non porta la propria croce… – L’entusiasmo della folla non si affievolisce, e il seguito che accompagna il giovane Maestro si ingrossa come un fiume in piena: Gesù è in viaggio verso la Città santa ed è accompagnato da una «folla numerosa».
Potrebbe fare piacere a chiunque questo consenso popolare, ma non al Cristo il quale ha sempre evitato certe manifestazioni di piazza. Inoltre, ha sempre dettato, senza infingimenti, norme ed esigenze per porsi alla sua sequela (cfr Lc 9,57-62).
Ora, rivolgendosi alla «folla numerosa» che andava con lui, Gesù pone come condicio sine qua non il distacco dagli affetti e dai legami parentali, l’obbligo di seguirlo per l’irta salita del Calvario e la rinunzia ai beni. Quindi, per essere veramente annoverati tra le fila dei suoi discepoli, è necessario compiere la scelta radicale di anteporre lui ad ogni persona o cosa, preferendolo anche ai familiari e alle persone più care. Un enorme sacrificio se pensiamo che ai tempi di Gesù il cardine di ogni relazione o convivenza sociale poggiava sull’isti-tuzione della famiglia e del clan, una sorta di famiglia allargata.
Se uno… non mi ama più di quanto ami suo padre… Gesù esplicita in questo modo una gerarchia di valori, Dio viene al primo posto, gli uomini al secondo.
Gesù non domanda disinteresse o indiferenza verso i propri cari, ma il distacco completo e immediato (cfr Lc 9,57-62) e non intende infrangere la Legge di Dio (il quarto comandamento), ma vuole orientare l’uomo a scegliere i veri valori che contano, in questo caso il vero valore che conta è Dio. Ad una scelta orizzontale, parenti, genitori, figli, Gesù impone al discepolo una scelta verticale: gli affetti familiari praticamente devono essere gradini che devono slanciare l’uomo verso Dio.
La seconda condizione è portare la croce. Di lì a poco, Gesù, dalle parole sarebbe passato ai fatti sfilando per le vie di Gerusalemme gravato dal peso insopportabile della croce sulla quale sarebbe morto per la salvezza di tutti gli uomini.
Il verbo «portare» (bastazo) significa portare qualcosa di molto pesante, che opprime. Il verbo (attivo indicativo presente) descrive un’azione che si sta svolgendo ora, in questo momento, con tendenza a durare verso un immediato futuro.
La croce è quella di Gesù senza orpelli aggiuntivi, senza interpretazioni metaforiche. È il ruvido legno con annessi e connessi: persecuzioni, ingiurie, torture, delazioni, calunnie, odio gratuito… «quegli avvenimenti voluti o permessi da Dio, che ci fanno violenza, ci umiliano, ci causano dolore e pena e ci mettono alla prova in diverse maniere. Portare la croce significherà quindi entrare nelle intenzioni di Dio, che vede in questi avvenimenti degli strumenti della nostra salvezza; accettare o ricercare queste contrarietà come mezzi per far progredire il regno di Dio in noi e intorno a noi. Perché la croce sia meritoria per il Regno dei cieli deve essere accettata per amore di Dio; per volere seguire Cristo, bisogna volere tutto ciò che esige il suo amore» (E. Spinghetti).
Tanto richiede la vita cristiana: all’adorazione e all’amore è necessario aggiungere la riparazione e il patire. Quest’ultimo accettato volontariamente come stile di vita e non con entusiasmo effimero, con slancio di un’ora o di una settimana, ma «ogni giorno», senza sconti, senza respiro, senza riposo, fino alla fine: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23). Per chi vuol farsi compagno di Cristo, il patire è il distintivo irrinunciabile di questa scelta.
Con le due parabole, del costruttore e del re che muove guerra, Gesù vuole suggerire come la sequela cristiana comporti cautela, maturazione, serietà, propositi fermi. La scelta cristiana «non è cosa da poco, che si può fare a cuor leggero, con superficialità, senza soppesare la gravità dell’impegno che ci si assume. Pur ammettendo una gradualità, l’essere cristiano non è un distintivo o un diploma honoris causa, ma una decisione di volere mettere le proprie capacità, i propri talenti, il proprio tempo a disposizione di tutti prima che di se stessi, persino i propri averi» (Ortensio Da Spinetoli).
Chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi… Quello di Gesù non è un pauperismo a buon mercato o di bassa lega: la ricchezza è un pericolo mortale (cfr 1Tm 6,10) e chi ha voluto giocare con essa ha riportato a casa le ossa rotte. Possono esserci delle eccezioni, avere delle ricchezze e non attaccarsi ad esse, ma sono solo eccezioni: è più facile che un cammello passi per una cruna d’ago che un ricco entri nel regno dei cieli (cfr Lc 18,25).
Riflessione
Colui che non porta la propria croce… – Portare la croce di Cristo, è una delle condizioni per seguire Gesù ed è certamente la più impegnativa. La croce rievoca la visione di un supplizio infame. E Gesù chiede anche questo a noi, suoi discepoli: saper perdere la propria vita per Lui, come ha fatto Lui per noi. Perdere la propria vita in un’ottica evangelica è sinonimo di fedeltà.
La croce per il cristiano è un titolo di gloria perché portando la croce di Cristo, e con Lui, egli diventa corredentore e costruttore bu-ono della Chiesa, sacramento di salvezza, segno e strumento dell’u-nione con Dio (LG 9; 42, ecc. ; Col 1,24).
È fonte di consolazione e di gioia, via ampia che conduce alla gloria: quelli che dal battesimo sono stati resi partecipi delle sofferenze del Cristo (2Cor 1,5; 1,7; Fil 3,10) hanno la certezza di partecipare anche alla sua gloria (Rm 8,17; 2Cor 4,17; Fil 3,11; 1Pt 1,11;5,1;4,13-16).
Noi siamo corpo di Cristo e sue membra (1Cor 12,27), Lui è il Capo: ora, i discepoli di un Capo crocifisso non possono non essere anche loro crocifissi! E questa verità nei cuori di credenti non genera tristezza o amarezza, ma gioia, esultanza; i cristiani sanno che come figli di Dio possono aspirare ai beni del loro Padre, che erediteranno con Cristo, di cui condividono le sofferenze: «E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17).
L’apostolo Paolo è ben certo che il «momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione, ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2Cor 4,17; cfr Rm 8,18): se la «fatica ha un fine, il premio sarà senza fine» (Sant’Agostino).
L’unico tesoro del discepolo è Cristo ed essere suo discepolo: «Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; e vieni! Seguimi!» (Lc 18,22; 12,33).
Porsi alla sequela del Cristo occorre ponderatezza, riflessione. San Paolo nel dare un’immagine del cristiano usa spesso quella dell’a-tleta il quale, «temperante in tutto» (1Cor 9,25), corre «verso la mèta, al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (Fil 3,14); oppure, quella del soldato il quale non «si lascia prendere dalle faccende della vita comune, se vuol piacere a colui che lo ha arruolato» (2Tm 2,4).
Chi mai ha detto che il regno di Dio è per gli sfaccendati? Gesù è portatore di una notizia e di un appello che non concedono dilazioni. E la sua parola risuona come vento gagliardo che spezza ogni umana prudenza: «Dai giorni di Giovanni il Battista fino ad ora, il regno dei cieli subisce violenza e i violenti se ne impadroniscono» (Mt 11,12). Non si può tergiversare davanti alle lacrime dei genitori o delle persone care o accarezzare il proprio egoismo; non si può essere pronti al compromesso con il peccato e rabberciare la Parola o introdurre esegesi accomodanti, se lo facessimo tradiremmo il Vangelo, saremmo come «quei molti che fanno mercato della parola di Dio» (2Cor 2,17).
La pagina dei Padri
L’intelligenza umana è limitata – Cirillo di Gerusalemme: L’in-telligenza è in grado di comprendere assai rapidamente; la lingua invece ha bisogno delle parole e di molte espressioni intermediarie del linguaggio. Anche l’occhio percepisce simultaneamente, in un solo istante, un’immensa estensione di stelle. Ma se uno poi vuole spiegarle una per una, che cosa sia Lucifero, che cosa sia Vespero e così dicendo per tutte le altre, allora ha bisogno di parecchie parole. Allo stesso modo, anche il pensiero è capace di abbracciare in un attimo tutta la terra, il mare e l’universo intero. D’altra parte, ancora una volta, ciò che il pensiero concepisce in un solo istante, può essere poi espresso soltanto con molte parole.
L’esempio che abbiamo appena illustrato è significativo, ma ancora troppo debole e non del tutto efficace. Infatti, quando noi parliamo di Dio, non diciamo tutto ciò che ci sarebbe da dire, perché questo può essere noto soltanto a lui. Noi affermiamo invece, nei nostri discorsi su Dio, unicamente quanto la nostra natura umana è in grado di comprendere su ciò che lo riguarda, quanto, cioè, la nostra limitatezza può giungere a sostenere.
Noi non possiamo spiegare che cosa è Dio. Confessiamolo candidamente: noi non lo conosciamo. Riconoscere la propria ignoranza delle cose che riguardano Dio, questa sì che è una dimostrazione di grande sapienza!