Dal libro del Siràcide (3,17-20.28-29) – Fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore: Il libro del Siràcide prende nome dal suo autore, un ebreo di Gerusalemme chiamato «Gesù figlio di Sirach, figlio di Eleàzaro» (Sir 50,27), maestro di sapienza e appassionato studioso della Legge di Dio. Per l’autore di questo libro sapienziale, l’u-miltà viene da Dio ed è un dono che il Signore largisce ai suoi amici. Un dono da ricercare perché soltanto l’umile sarà ricolmato dei favori divini: «Numerosi sono gli uomini alteri e superbi, ma agli umili (Dio) rivela i suoi segreti». ([19] greco 248 e sin). L’umile, vivendo modestamente, glorifica Dio con la sua vita. L’umiltà, che è verità e conoscenza dei propri limiti, indica la vera posizione dell’uomo davanti a Dio sia come creatura che come peccatore. Nel libro è sottolineato anche il valore preziosissimo dell’elemosina: oltre ad essere una fonte di retribuzione divina è anche un tesoro che viene depositato in Cielo (cfr Mt 6,2-4; Lc 12,21.33ss).
Dalla lettera agli Ebrei (12,18-19.22-24) – Vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente: La lettera agli Ebrei mette a confronto le due alleanze: quella Antica e quella Nuova. L’Antica è simboleggiata dal monte Sinai dove Dio si manifestò al suo popolo con segni terrificanti che resero impossibile la visione del suo volto. Nella Nuova Alleanza, simboleggiata dal monte Sion, Dio si manifesta nella debolezza della carne umana (cfr Gv 1,14). Cristo Gesù, vero Dio e vero uomo, è l’unico Mediatore di questa Nuova Alleanza e anche via pacifica e amabile attraverso la quale l’uomo arriva alla contemplazione del volto del Padre: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9). La Nuova Alleanza a differenza dell’Antica è eterna ed immutabile perché sancita nel sangue del Figlio Unigenito, Cristo Gesù.
Dal Vangelo secondo Luca (14,1.7-14) – Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato: Gesù vuole che i suoi discepoli siano umili, piccoli, «poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Il bene va fatto senza alcuna mira di contraccambio umano e l’amore verso i poveri e gli ultimi deve essere schietto, sincero ad imitazione di Dio che è «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 67,6). Solo agli umili Dio rivela i segreti del Regno (cfr Mt 11,25) e ad essi mostra il suo volto.
Dal Vangelo secondo Luca
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti al-l’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Approfondimento
L’unico Mediatore: Cristo Gesù – L’umanità alienata dal suo Creatore a motivo del peccato di Adamo e di Eva, ha bisogno di un mediatore che la riconcili con Dio. Nell’Antico Testamento il primo a svolgere questa opera di mediazione è Abramo.
Per suo tramite Israele è benedetto da Dio ricevendo in dono una terra dove scorrono “latte e miele” (Es 3,8). In Abramo sono benedette “tutte le nazioni della terra” (Gen 18,18).
Segue Mosè che svolge la funzione di mediatore sia come intercessore per il suo popolo sia come rivelatore della Legge di Dio. Per salvare il suo popolo, Mosè si spinge a chiedere di morire, lui innocente, con i colpevoli (cfr Es 32,30-32). La mediazione di Mosè è gravida di sofferenze, di preghiere, di indicibili digiuni: tutto egli fa per salvare il suo popolo, accetta finanche di morire fuori dalla terra promessa in luogo del popolo peccatore (cfr Dt 1,37; 4,21s).
Dopo l’Esodo la funzione di mediazione è esercitata dal sacerdozio levitico. Il sacerdote attende a due ministeri: al culto religioso, regolato da un codice sacerdotale (cfr Lv 17-25) e al servizio della parola che viene esercitato nelle feste, quando egli ricorda a Israele le grandi opere compiute da Dio nella storia della salvezza e in occasione della rinnovazione dell’Alleanza, quando proclama al popolo solennemente la Legge (cfr Dt 33,8s; Es 1-15; Ne 8,2-3).
Il re d’Israele, in quanto depositario dei poteri di Dio, è il mediatore che deve assicurare al popolo di Dio giustizia, pace, sicurezza nei suoi confini, prosperità e benessere.
A svolgere ancora questa funzione sono i profeti, uomini scelti da Dio ed elevati a strumenti della sua parola (cfr Am 7,14; Ger 1,2.9).
La mediazione che svolge il profeta è molto ampia. Egli è al servizio del popolo come guida spirituale e come sentinella (cfr Ez 33,7-8), vigila sulla retta condotta degli Israeliti, parla con le parole di Dio e parla a Dio in nome d’Israele. In questa opera di mediazione il profeta è come “sedotto” da Dio (Ger 20,7): investito da una forza che lo soggioga e lo domina (cfr Is 8,11; Ez 1,3), viene condotto per vie imprevedibili (cfr Ez 3,24s) e a nulla vale la sua resistenza (cfr Ger 1,7).
Purificato dalle sue impurità, il profeta diventa uno strumento docile e fedele (cfr Is 6,1s; Ger 1,1s; Ez 1-3): deve trasmettere un messaggio (cfr Ger 23,28) davanti al quale si annulla ogni sua personale iniziativa. Dio ponendo sulle labbra del profeta la sua Parola lo costituisce sua bocca (cfr Ger 15,19), ed è come se Dio si sostituisse a lui (cfr Is 1; Ez 6-7).
Ma solo in Gesù questa funzione trova la sua pienezza. Se la mediazione è possibile in quanto il mediatore ha rapporti con entrambe le parti da pacificare, la mediazione di Gesù, diversamente da quella di tutti gli altri mediatori, è unica per la qualità del rapporto che egli ha con esse: “Pienamente uomo (Eb 2,14-18; Rm 5,15; 1Cor 15,21; 1 Tm 2,5) e nello stesso tempo dotato della pienezza della divinità (Col 2,9; Rm 9,5), Gesù è l’intermediario unico (Rm 5,15-19; 1Tm 2,5; 1Cor 3,22-23; 11,3) tra Dio e gli uomini, che egli unisce e riconcilia (2Cor 5,14-20). È intermediario della grazia (Gv 1,1-2). In cielo continua a intercedere per i suoi fedeli (Eb 7,25)” (Bibbia di Gerusalemme).
La mediazione di Cristo non esclude, ma suscita la cooperazione delle creature (LG 62). In questo ufficio eccelle Maria, la Madre di Gesù, in quanto la sua maternità “nell’ordine della grazia perdura ininterrotta […]. Assunta in cielo non ha deposto questa sua funzione di salvezza, ma continua ad ottenerci i doni della salvezza eterna mediante la sua molteplice intercessione” (LG 62).
La mediazione di Maria non offusca né diminuisce quella del Figlio perché si fonda e dipende in modo assoluto dalla mediazione del Redentore (LG 60; 62).
Commento al Vangelo
Non metterti al primo posto – Gesù accettando di entrare «in casa di uno dei capi dei farisei per pranzare» fa bene intendere che la sua opposizione verso di essi non è per partito preso o per pregiudizi, ma che si fonda su ragioni molto più profonde delle solite diatribe scolastiche (cfr Mt 23,13-36; Lc 11,37-52). Un ospite come Gesù certamente doveva attirare l’attenzione degli invitati e suscitare la frenesia di stargli vicino. C’è da ricordare anche che quel giorno era un sabato e Gesù, appena entrato in casa del fariseo, aveva guarito un idropico (Lc 14,2-5). Una guarigione che era stata accettata unanimamente an-che se malvolentieri (Lc 14,2-6). Tutto questo costituiva una miscela esplosiva.
Gesù è sotto lo sguardo di tutti, ma Egli non è da meno: osservando e notando come i notabili cercano di accaparrarsi i primi posti, propone ai commensali una lezione sulla virtù dell’umiltà: parole severe, ma scontate in quanto non fanno che svelare l’ipocrisia e la vanità degli scribi e dei farisei notoriamente affamati di lodi, di onori e inoltre amanti dei primi posti (cfr Mt 23,1 -12).
Gesù «vuol mettere in luce che tutti i presenti, invitante ed invitati sono una massa di cafoni, pieni di pregiudizi egoistici, di banali arrivismi e di preoccupazioni gerarchiche. Gesù con le sue nette affermazioni vuole smantellare i pregiudizi mettendo a nudo i loro sentimenti. A parte la questione delle precedenze imposte dal galateo e dalle tradizioni giudaiche, in fondo si tratta anche di non cadere nel ridicolo. C’è sempre tanta ambizione e tanto arrivismo nella società di tutti i tempi: contro di essi Gesù oppone un caloroso invito all’umiltà» (C. Ghidelli).
Seguendo l’insegnamento della sacra Scrittura, l’umiltà, che Gesù addita ai commensali, oltre ad essere una virtù morale è un modo di essere: una «posizione della creatura di fronte al creatore, del peccatore di fronte al redentore» (I. M. Danieli).
Ovvero, al dire di san Bernardo, è la virtù «per la quale l’uomo si disprezza perché possiede una perfetta conoscenza di se stesso».
E nella logica evangelica solo «chi si umilia sarà esaltato» da Dio (Lc 18,9-14). È l’insegnamento che Gesù non si stanca di proporre ai suoi discepoli: «In verità io vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque si farà piccolo come questo bambino, costui è il più grande nel regno dei cieli» (Mt 18,1-4).
Farsi umili, diventare come bambini, significa disporsi ad accettare d’essere dipendenti senza sentirsi feriti nel proprio orgoglio. Nella vita cristiana questo è molto importante perché spalanca il credente al mistero della comunione con i fratelli e con Dio. Essere umili-bam-bini non significa farsi più piccoli di quel che si è, ma fare la verità in se stessi; significa sapere stimare colui con il quale si condivide un cammino di vita e comprendere quanto veramente si è piccoli di fronte a Dio.
Gesù ha percorso questo cammino, umiliando se stesso e facendosi ubbidiente alla volontà del Padre fino alla morte di croce (Fil 2,5ss).
Così ammaestrato, e dinanzi a tale modello divino, il discepolo serve il suo Signore con le opere e con il dono della sua vita senza ritenerlo un merito, ma un dovere: «Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc 17,10).
Gesù ha anche una parola sulla scelta degli invitati. Nei commensali v’è una logica contorta che mortifica ogni relazione umana: è la logica del do ut des. Amare perché c’è un profitto, donare perché c’è un guadagno… un modo di agire che fa a pugni con il Vangelo. Fare il bene disinteressatamente significa diventare sempre simili a Dio il quale è benevolo verso tutti, giusti e ingiusti (cfr Mt 5,43-48). Tutto questo sarà ancora più chiaro nella sala del grande banchetto del Regno dove i meno abbienti, i poveri, i diseredati occuperanno i primi posti. I farisei per la loro stupida vanità «hanno reso vano per loro il disegno di Dio» (Lc 7,30), ecco perché i pubblicani e le prostitute passano avanti a loro nel regno di Dio (cfr Mt 21,28-32).
Riflessione
Chi si umilia sarà esaltato – Il cristiano, se è vero discepolo del Cristo, è destinato agli ultimi posti: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29).
Gesù «è “l’uomo perfetto” che con il suo abbassamento, ci ha dato un esempio da imitare» (CCC 520).
Con la sua vita, Gesù, modello insuperabile di perfezione morale, insegna soprattutto come l’umiltà sia verità. Egli non negò di essere il Figlio di Dio e il Messia (cfr Lc 22,70). Non nascose la sua capacità divina di operare miracoli, di leggere nei cuori degli uomini, di predire il futuro. Si proclamò superiore a Salomone (cfr Mt 12,42), e come «segno» disse di essere ben più di Giona (Mt 12,38-42).
Affermò di essere Dio, dicendo ai Giudei, sconcertati per le sue parole, di esistere prima di Abramo (cfr Gv 8,58); disse che il profeta Isaia aveva contemplato la sua gloria e di avere per questo gioito ed esultato (cfr Gv 12,41; Is 6,1-4). Proclamò solennemente di essere la Verità, la Risurrezione, la Vita, il Pane del cielo che avrebbe saziato gli uomini e donato loro l’immortalità. Alle guide spirituali d’Israele, scandalizzate per il suo insegnamento, manifestò il suo potere di perdonare i peccati agli uomini (cfr Mc 2,5). Se qualche volta nascose o velò la sua vera identità fu per evitare interpretazioni false del suo messianismo. E se manifestò la sua vera identità non fu che per la gloria del Padre e la salvezza del mondo. Quanto a lui si sottomise spontaneamente alla più estrema povertà, accettò con letizia le più dure prove e umiliazioni; per redimere gli uomini si annichilì umanandosi e per fare la volontà del Padre accettò la morte infamante di croce (cfr Fil 2,5-11).
L’umiltà non consiste nel negare la verità, ma è accettare la propria realtà personale con le proprie capacità e limiti. Umiltà è fare la verità su se stessi e nel prossimo.
Il discepolo che «dice di dimorare in Cristo, deve comportarsi come lui si è comportato» (1Gv 2,6). La prima lettera di san Giovanni suggerisce tre comportamenti da imitare e che fondano l’umiltà.
Essi sono: la purezza: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro» (1Gv 3,5); la giustizia: «Chi pratica la giustizia è giusto com’egli è giusto» (1Gv 3,7); il dono di se stessi, totale, senza riserve: «Egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1Gv 3,16).
La purezza, penetrando come luce nel cuore e nella mente dell’u-omo, ristabilisce la relazione con Dio interrotta dal peccato d’orgo-glio consumato nel Giardino (cfr Gen 3,1ss). L’uomo puro, riconoscendo di portare fin dalla nascita il marchio del peccato (cfr Sal 50[51]), si umilia dinanzi al Signore; l’uomo puro confessando il suo peccato si abbandona serenamente alla azione purificatrice di Dio (cfr Sal 131 [130],1-2).
L’uomo giusto rivela nel suo agire stima e rispetto verso i suoi simili e verso la creazione. È onesto, pio, fedele, buono. Ama sinceramente la legge di Dio (cfr Sal 37[36],30). Rifiuta di dare ad essa un’interpretazione legalistica, fredda, astratta, senza amore del prossimo. Cercando di aderire piuttosto allo spirito che alla lettera si preserva dallo zelo amaro e dal cieco orgoglio di cui sono infetti gli ipocriti osservanti della legge di Dio.
Come il suo Signore, l’umile è pronto a dare la sua vita per il suo prossimo senza calcoli o interessi. Un dono che si concretizza non soltanto nel martirio, ma anche nello scorrere monotono del quotidiano; sopra tutto nel gesto umile di lavare i piedi al proprio fratello (cfr Gv 13,14-15). Ciò che Gesù suggerisce ai discepoli non è tanto il gesto della lavanda mutua dei piedi, quanto, la realtà, di cui è segno: l’amore redentivo che passa attraverso il dono di sé agli altri (cfr 1Gv 3,13).
«Amore, donazione, servizio, umiltà sono propri della passione redentiva. In questo Gesù vuole essere imitato dai suoi discepoli, perché fra loro si amino in una disposizione di servizio, di umiltà e di donazione per divenire tramiti di salvezza di Cristo gli uni verso gli altri. Il cristiano è tale perché imita Cristo» (Vincenzo Raffa).
La pagina dei Padri
Il numero di quelli che si salvano – Sant’Agostino: La prima nota dell’umiltà è la fedeltà agli impegni della vita comune, attraverso i quali essa si accaparra la benevolenza di Dio e stringe i vincoli della vita sociale.
L’umiltà rafforza la carità. L’Apostolo dice: “Amatevi, onorandovi scambievolmente” (Rm 12,10). E cresce la carità, quando l’umile crede gli altri superiori a sé e ama di servire, e, se è messo a comandare, non si gonfia.
Poiché, dunque, la Chiesa di Dio, che è il corpo di Cristo, è così bene fusa nella sua molteplice varietà, che tutte le parti, anche diverse, concorrono ad un unico splendore, e d’ogni specie di uomini, d’ogni grado di ministeri, da ogni opera e da ogni virtù nasce un’in-separabile unità di struttura e una sola bellezza, e non manca al tutto ciò che non manca alle parti, ed ha tanta concordia che non può non essere di tutti ciò che è anche di ciascuno, è evidente che vi deve essere una forza copulatrice che tiene insieme e fonde tutta la molteplicità e diversità dei santi. E questa forza è la vera umiltà, la quale, qualunque sia la diversità dei diversi gradi, è sempre simile a se stessa.