Liturgia, luglio

XV del Tempo Ordinario (C) 14 Luglio 2019

      Dal libro del Deuteronòmio (30,10-14) – Questa parola è molto vicina a te, perché tu la metta in pratica: Mosè, alla vigilia di entrare nella terra promessa, rivolge tre discorsi a Israele. Come condizione per possedere e godere la terra promessa raccomanda l’osservanza della legge di Dio, proponendo per la seconda volta il decalogo e il codice. La Legge è la base irrinunciabile di ogni convivenza civile, di ogni moralità. Per il credente questo assunto si fa più forte perché per lui la fonte della Legge è Dio.

  Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Colossési (1,15-20) – Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui: La comunità cristiana di Colossi è scossa da una dottrina d’origine ebraica e pagana. Contro aberranti teorie che esaltano il ruolo di misteriose potenze celesti, Paolo propone una riflessione approfondita sulla persona e sul ruolo di Cristo, «capo» della Chiesa e dell’intero creato. L’inno cristologico è composto da due strofe che celebrano Cristo come il primogenito di tutta la creazione e come il primogenito dei morti: alla «cristologia cosmica della prima strofa corrisponde la soteriologia cosmica della seconda strofa. Creazione e redenzione sono rapportate reciprocamente. Cristo in quanto esaltato nella redenzione cosmica è anche come il detentore di una sovranità cosmica, quella che presiede e orienta tutta la creazione» (Mauro Orsatti).

  Dal Vangelo secondo Luca (10,25-37) – Chi è il mio prossimo?: I personaggi del racconto evangelico appartengono a due mondi contrapposti, «l’un contro l’altro armato» (Alessandro Manzoni): da una parte il Samaritano, lo straniero ed eretico (cfr. Gv 8,48; Lc 9,53), dal quale non si attenderebbe normalmente che odio e dall’altra il sacerdote e il levita, coloro che in Israele sono maggiormente tenuti a osservare la legge della carità. Quest’ultimi sono convinti di amare Dio anche se lasciano morire per strada chi ha avuto la disavventura di incappare nei briganti: non si accorgono che è una pura scempiaggine credere di amare Dio disprezzando il prossimo. La religione che separa totalmente il religioso dal profano, che ha cura del rito senza integrarlo con la morale, che non assomma il culto con la carità, è praticamente una religione atea.

Dal Vangelo secondo Luca

  In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai». Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Ab-bi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

Approfondimento

      Il dottore della Legge – La Legge, anche per i più profondi conoscitori, creava difficoltà e accesi dibattiti perché i comandamenti non sempre erano chiari o decodificabili. Per esempio, il giorno di sabato andava santificato, ma praticamente quali erano le cose permesse in giorno di sabato e quali non lo erano. I Farisei, che derivavano direttamente dagli Asidei, “diedero vita a una serie di regole che avevano lo scopo di aiutare la gente a non infrangere la legge e cercavano di applicare la vecchia legge alle nuove situazioni. Era necessario raccontare aneddoti per illustrare i principi della legge [l’Haggadah] ed era necessario che le decisioni riguardanti la legge fossero trasmesse agli altri. I responsabili per questa parte del lavoro erano gli scribi, o dottori della legge, e c’erano diverse scuole interpretative” (Gower).

  Lo scriba, prima dell’esilio, era un funzionario reale; oggi diremmo un segretario incaricato della corrispondenza e forse della contabilità del re (cfr. 2Sam 8,17; 20,25; 2Re 12,10; 19,2; 22,3). Ma negli ultimi tempi della monarchia, in esilio, e soprattutto dopo questo doloroso periodo di prigionia, essi si applicarono nella trascrizione della Legge e dei testi relativi al culto, diventando in questo modo esperti e profondi conoscitori “nei comandi del Signore e nei suoi statuti dati a Israele” (Esd 7,11).

  Gli scribi divennero gli interpreti ufficiali della Legge; venivano chiamati «dottori della Legge» (cfr. Lc 5,17; At 5,34). Il loro titolo abituale era «rabbì», una parola ebraica che significa «maestro mio» (cfr. Mt 23,7). Gesù stesso era chiamato così dai suoi discepoli (Mt 26,25.49).

  Le scuole fondate dagli scribi riunivano numerosi allievi in edifici speciali, o nelle costruzioni incluse nei portici del tempio, o anche negli atri (cfr. Mc 14,19; Lc 2,42). Gli allievi stavano seduti «ai piedi» del maestro, a terra (cfr. At 22,3).

  L’insegnamento era orale e consisteva in sentenze, domande e ri-sposte che s’imparavano a memoria. La scrittura si faceva su tavolette di legno spalmate di cera (cfr. Lc 1,63). Gli unici libri di testo era-no la Torah o Pentateuco, i Profeti e gli Scritti. A partire dal 65 d.C., la scuola fu resa obbligatoria per tutti i ragazzi dai sei anni in su.

  Celebri furono le scuole dirette da Hillel e Shammai che attirarono a Gerusalemme molti allievi; l’apostolo Paolo seguì i corsi di Gamaliele, erede del pensiero di Hillel e rappresentante più in vista della tendenza più larga e umana nella interpretazione della Legge (cfr. At 5,34; 22,3). Gli scribi nel Sinedrio erano in gran numero, e quando si doveva amministrare la giustizia il loro parere era molto ascoltato proprio perché della Legge essi conoscevano tutte le applicazioni possibili.

  Spesso nell’Antico Testamento gli scribi, quasi sempre associati ai Farisei e ai sacerdoti, sono fatti oggetto di roventi rimproveri da parte dei profeti.

  Geremia, per esempio, li accusa di falsificare la Legge, che è un modo come un altro di disprezzare Dio (cfr. Ger 2,8; 8,8). Con Gesù gli scribi furono perennemente in conflitto poiché il modo d’insegna-re e la sostanza dell’insegnamento del giovane rabbi di Nazaret erano molto diversi da quelli dei dottori della legge: “Dio in origine aveva dato la legge come un atto di grazia suprema. Il popolo era nelle tenebre, non sapendo che cosa Dio volesse. La legge diceva: «Questo è ciò che io voglio; se vivete secondo queste norme io vi salverò» [cfr. Mt 19,16]. I Farisei avevano trasformato la legge da un atto di grazia in un grande peso: «Ecco quello che devi fare: se non ci riesci, Dio ti punirà; se lo fai, allora sei sufficientemente giusto per essere accolto da Dio». Ciò era talmente in disaccordo con quanto Dio voleva, che Gesù si ribellò a questa concezione” (Ralph Gower).

  Gesù non temette mai di dire agli scribi ciò che pensava di essi (Lc 11,45-46) e nelle “sette maledizioni” sono associati ai Farisei (Mt 23,13-32). Dopo la distruzione di Gerusalemme un buon numero di scribi si ritrovarono a Iabne, una trentina di chilometri a sud di Tel Aviv, costituendovi uno dei tanti centri religiosi cultori di quella tradizione, raccolta poi nella monumentale opera del Talmud.

Commento al Vangelo

  Un uomo scendeva… – Solo Luca parla di questo episodio. Il «dottore della Legge» che si «alza» per mettere alla prova Gesù è un esperto della Legge e trascinare intenzionalmente il giovane maestro di Nazaret in questioni riguardanti la Legge era come spingerlo sulle sabbie mobili. La domanda posta a Gesù, – che devo fare per ereditare la vita eterna? -, era di vitale importanza per ogni ebreo e la preoccupazione del dottore della Legge non è sul piano teorico, ma pratico (cfr. Lc 18,18). Non era facile districarsi in una selva di precetti e trovarvi la via che conduceva alla vita eterna. Basti pensare che il numero dei precetti della Torà era di ben 613, di cui 248 precetti positivi e 365 precetti negativi.

  Alla domanda del leguleio, Gesù risponde a sua volta con una domanda in modo che sia lo stesso interlocutore a dare la risposta. Quando il dottore della Legge cita la sacra Scrittura, e precisamente: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza…» (Dt 6,5) e la legge parallela «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18), Gesù gli dice che ha risposto correttamente e lo invita a comportarsi di conseguenza.

  Il monito fa’ questo (tu fa’ così) è ripetuto anche alla fine della parabola per sottolineare l’importanza della pratica di vita di cui certamente difettava il borioso dottore della Legge, il quale volendosi giustificare chiede a Gesù: «E chi è mio prossimo?».

  La risposta per l’interlocutore era in verità già scontata. In linea di massima, il prossimo, per un Giudeo, era il connazionale o lo straniero che dimorava in Israele (cfr. Lv 19,33-34). Più tardi saranno considerati prossimo i pagani convertiti.

  Da questa lista certamente erano esclusi i nemici e sopra tutto i Samaritani. Secondo Fabris, al tempo di Gesù erano state aggiunte altre restrizioni, «per cui praticamente il prossimo era il membro della setta o del gruppo religioso [farisei, esseni, zeloti, ecc.]. È su questo sfondo che deve essere trascritto il racconto magistrale di Gesù».

  Gesù, a questo punto, perché sia più chiara la sua esortazione, narra la parabola dell’uomo incappato nei briganti. Di proposito gli attori del racconto sono un sacerdote, un levita e un Samaritano. I primi due, consci di essere gli «eletti» rappresentanti religiosi dell’e-braismo, appartengono al popolo d’Israele; il Samaritano invece a un popolo considerato dai Giudei eretico, pagano. Un’antica ferita che si perdeva nella notte dei tempi quando Sargon re degli Assiri, nel 721 a.C., aveva conquistato il regno del Nord deportando i suoi abitanti e al loro posto erano state trasferite genti di altre nazioni (cfr. 2Re 17) che si erano amalgamate con i pochi rimasti in patria. Anche in campo religioso si era creato un sincretismo che aveva spinto i Giudei scampati all’esilio, e che erano ritornati nella loro terra, a considerare i Samaritani come popolo misto.

  Gesù nel raccontare la parabola, di proposito, opera uno spostamento di accento, dall’oggetto al soggetto. Mentre il dottore della Legge aveva chiesto chi doveva essere oggetto del suo amore, Gesù fa vedere il soggetto, chi è colui che ama veramente; al dottore della Legge che chiedeva chi fosse il prossimo da amare, Gesù gli insegna come lui avrebbe dovuto diventare prossimo. Praticamente, Gesù chiede al dottore della legge di rientrare in se stesso e di verificare in che modo egli si pone nei confronti degli altri, quali relazioni costruisce con gli altri. Al termine della parabola, il saccente custode della Legge scopre il senso dell’insegnamento di Gesù: come il Samaritano deve avere il coraggio di farsi prossimo di chi nell’imme-diato ha bisogno del suo aiuto senza stare a sofisticare in questioni di lana caprina. Una bella lezione per chi era abituato a «filtrare il moscerino» (Mt 23,24).

  Non va poi dimenticato il senso cristologico della parabola: il buon Samaritano è Gesù che nell’amare l’umanità rivela e realizza l’infinito amore del Padre per tutti gli uomini. In questa ottica l’amo-re verso il prossimo, che con la parabola viene comandato a tutti i discepoli, deve essere interpretato come continuazione dell’amore di Gesù, come insegnano le sue stesse parole: «Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 15,34).

Riflessione

  Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna? – La vita eterna non è un tema esclusivo del Nuovo Testamento. Anche l’An-tico Testamento ha prospettato ampiamente la risurrezione dei morti. Oltre il Libro dei Salmi (cfr. Sal 49; 103; ecc.), anche il Libro della Sapienza ama soffermarsi sul tema dell’immortalità e lo fa mettendo in risalto la stoltezza degli empi. Prepotenti e beffeggiatori dei giusti, con la certezza che con la morte finisce tutto, si protendono unicamente a godere, a mangiare e a bere: «La nostra vita è breve e triste; non c’è rimedio quando l’uomo muore… siamo nati per caso e dopo saremo come se non fossimo stati: è un fumo il soffio delle nostre narici… Venite dunque e godiamo… coroniamoci di boccioli di rosa prima che avvizziscano; nessuno di noi sia escluso dalle nostre dissolutezze» (Sap 2,1-9).

  Ma si sbagliano: «Hanno pensato così, ma si sono sbagliati; la loro malizia li ha accecati. Non conoscono i misteriosi segreti di Dio, non sperano ricompensa per la rettitudine né credono a un premio per una vita irreprensibile» (Sap 2,21).

  San Paolo sembra essere debitore di questa riflessione quando scrive ai cristiani di Corinto: «Se i morti non risorgono, mangiamo e beviamo, perché domani moriremo» (1Cor 15,32).

  L’insegnamento della Bibbia è invece ben diverso: Dio «ha creato l’uomo per l’immortalità» (Sap 2,23). L’uomo proprio perché è stato creato a immagine e somiglianza di Dio (Gen 1,26) è destinato all’incor-ruttibilità, a una vita che non finisce: i giusti «vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e di essi ha cura l’Altissimo. Per questo riceveranno una magnifica corona regale, un bel diadema dalle mani del Signore, perché li proteggerà con la destra» (Sap 5,15-16).

  A parlare apertamente di risurrezione dei morti è il Libro di Daniele: «Molti di quelli che dormono nella regione della polvere si sveglieranno gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna. I saggi splenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Dn 12,2-3).

  Tale verità si trova enunciata anche nel secondo Libro dei Maccabei (cap. 7; cfr. 12,38-45). Sette fratelli e la loro madre sono nelle mani degli aguzzini a motivo della loro fede: così parla il secondo fratello, prima di soccombere martire: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (2Mac 7,9). Tale dichiarazione è una chi-ara «confessione della risurrezione dei corpi degli uomini giusti. Nelle loro risposte, ognuno dei figli esprime un aspetto della dottrina riguardante la risurrezione e la vita eterna: è preferibile morire piuttosto che peccare [cfr. 7,2]; Dio ha compassione dei suoi servi [cfr. 7,6]; essi risusciteranno a una vita nuova ed eterna [cfr. 7,9.36], con i propri corpi [cfr. 7,11], per opera della potenza del Creatore [cfr. 7,23]; ciò non capiterà ai malvagi [cfr. 7,14], per i quali ci sarà il castigo [cfr. 7,17]; le sofferenze servono per la purificazione [cfr. 7,18]» (La Bibbia, Via, Verità, Vita).

  E la madre, temprando la tenerezza femminile con un coraggio virile, rivolgendosi ai figli, per incoraggiarli nell’ora della prova, così si esprime: «Non so come siate apparsi nel mio seno; non io vi ho dato il respiro e la vita, né io ho dato forma alle membra di ciascuno di voi. Senza dubbio il Creatore dell’universo, che ha plasmato all’origine l’uomo e ha provveduto alla generazione di tutti, per la sua misericordia vi restituirà di nuovo il respiro e la vita, poiché voi ora per le sue leggi non vi preoccupate di voi stessi» (2Mac 7,23).

  Non nebulose quindi le affermazioni veterotestamentarie e a questo proposito possiamo ricordare questa splendida preghiera, «gioi-sce il mio cuore ed esulta la mia anima… perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita, gioia piena alla tua presenza, dolcezza senza fine alla tua destra» (Sal 16,9-11). Parole che esprimono la certezza che la morte non spezzerà il vincolo di comunione con Dio poiché continuerà eternamente nella luce, nella beatitudine e nella gioia senza fine.

La pagina dei Padri

  Gesù è il buon samaritano – Sant’Ambrogio: «Non è di poco conto questo samaritano, il quale non disdegnò anche lui quell’uomo che il sacerdote, che il levita aveva disdegnato. E non stimarlo poco a motivo del nome della setta, perché lo ammirerai quando avrai conosciuto la traduzione dell’appellativo: la parola “samaritano” significa “custode”. Questa è la spiegazione. E chi è il custode, se non Colui del quale è stato detto: Il Signore custodisce i piccoli [Sal 114,6]? Perciò, come vi è un Giudeo secondo la lettera, e uno secondo lo spirito, così vi è un samaritano che si vede e uno nascosto. Questo samaritano, che stava scendendo – chi è Colui che è disceso dal cielo, se non colui che è asceso al cielo, il Figlio dell’uomo che è nel cielo (Gv 3,13)? -, vedendolo mezzo morto, poiché nessuno prima era stato capace di curarlo, […] si accostò a lui, cioè: si fece simile a noi avendo preso sopra di sé la nostra compassione, e si fece vicino donandoci la sua misericordia.

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