Dagli Atti degli Apostoli (14,21b-27) – Riferirono alla comunità tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro: Gli Apostoli sono entrati nella piena comprensione della misteriosa fecondità della Croce: «Esortando [i discepoli] a restare saldi nella fede, dicevano, è necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio». Questa affermazione non soltanto denuncia un tempo di persecuzione, ma anche l’accettazione di quella logica, tutta divina, del chicco di grano che deve cadere in terra per morire e così portare frutto (cfr. Gv 12,24). Il buon esito della missione è comunque da addebitare sempre al Risorto che «confermava la parola con i prodigi che l’accompagna-vano» (Mc 16,20). Tra i prodigi quello di aprire la porta della fede anche ai pagani. Per grazia di Dio, cadeva così ogni muro frammezzo che divideva i popoli (cfr. Ef 2,14). I frutti della Pasqua e dello Spirito sulle prime comunità, «quasi sorprendono gli stessi apostoli. L’esperienza abbraccia anche “le tribolazioni”, che segnano inevitabilmente l’itinerario della missione ma ne costituiscono anche il segreto della fecondità […]. Ciò che è toccato a Cristo e ai primi evangelizzatori, tocca ora a tutti i credenti» (V. Mannucci).
Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (21,1-5a) – Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi: La città santa, «la città degli eletti, in totale contrasto con Babilonia (c. 17), è un dono di Dio. La prospettiva è puramente celeste, come in Ap 7,15-17. L’inizio si ispira a Isaia (cc. 51 e 65). Gerusalemme, città di Davide, capitale e centro religioso di Israele (2Sam 5,9; 24,25; 1Re 6,2; Sal122), città di Dio (Sal 46,5), città santa (Is 52,1; Dn 9,24; Mt 4,5; ecc.), il cui cuore era la montagna (Sal 2,6) dove era costruito il tempio (Dt 12,2-3), era considerata in Israele la metropoli futura del popolo messianico (Is 2,1-5; 54,11; 60; Ger 3,17; Sal 87,1; 122; Lc 2,38). Là lo Spirito santo ha fondato la chiesa cristiana (At 1,4; 1,8; 2; 8,1.4; ecc.). Ora essa è trasferita in cielo, dove si compie il disegno salvifico di Dio (Ap 3,12; 11,1; 20,9; 22,19; cfr. Gal 4,26; Fil 3,20; At 2,22-24), quando saranno celebrate le sue nozze con l’Agnello (Ap 19,7-8; cfr. Is 61,10; 62,4-5; Os 1,2; 2,16; ecc.)» (Bibbia di Gerusalemme).
Dal Vangelo secondo Giovanni (13,31-33a.34-35) – Vi do un co–mandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri: Gli eventi precipitano, è giunta l’ora, l’ora delle tenebre; l’ora del dolore, della passione, della morte; l’ora della redenzione, della vita. I discepoli sono turbati, Giuda ha spalancato il suo cuore a Satana, i sinedriti attendono il segnale concordato con il traditore per catturare Gesù, Gesù sta per consegnarsi ai suoi carnefici, è l’ora dell’amore: Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. Il Padre ha tanto amato gli uomini da donare il suo Figlio unigenito, per amore il Figlio di Dio si è annichilito per la salvezza degli uomini, per amore lo Spirito Santo dimorerà tra gli uomini, perché gli uomini imparino ad amare, perché amando siano testimoni dell’Amore: la testimonianza è vera soltanto quando gronda amore, per Dio e per gli uomini.
Dal Vangelo secondo Giovanni
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Approfondimento
La visuale dottrinale del ciclo su Giuda – R. T. (Giuda in Schede Bibliche Pastorali, EDB): A causa della difficoltà di percepire a fondo l’elemento morale che guidò l’agire di Giuda, e anche per essere maggiormente in linea con l’esposizione degli evangelisti che non vogliono offrire una pura biografia né un’investigazione scientifica a carattere psicologico, ma presentare soprattutto un insegnamento di salvezza di valore perenne, gli studiosi moderni si sono piuttosto impegnati a mettere in luce il canovaccio dottrinale che ispira il gruppo dei racconti sull’apostolo traditore, e che in realtà era l’unica vera problematica che interessasse a fondo la primitiva cristianità.
Più che sui semplici dati della cronistoria, gli evangelisti si sono sforzati di comprendere, con l’aiuto dei testi vetero-testamentari, il ruolo del traditore nel piano divino. La trama dei racconti su Giuda si presenta legata a tre temi scritturistici principali:
- a) il tema del «commensale traditore», ricordato dal salmista (Sal 40,10) e applicato al caso nostro in modo esplicito da Marco (Mc 14,18) e, in un contesto un po’ più vago, da Giovanni (Gv 13,18), ma sempre con lo scopo di sottolineare l’enormità del tradimento;
- b) il tema, su cui insistono Luca (Lc 22,3) e Giovanni (Gv 12,2.27), del «ministro di satana», che incarna il popolo giudaico nel rigettare Cristo, e del «figlio della perdizione» (Gv 17,12), analogo al tema del-l’anticristo (cfr. 2Ts 2,3) e, per i monaci di Qumràn, all’«Uomo di Belial» (cfr. 1QM) vuol far notare che il vero avversario del Salvatore è satana, il quale si serve, però, degli uomini come strumenti liberi e volontari per condurre a fondo il suo attacco;
- c) il tema dell’«amico infedele», concretizzato nel fatto vetero-te-stamentario di Achitofel (2Sam 17,23), il compagno traditore di Davide, di cui Giuda avrebbe imitato il tradimento e il suicidio, e di cui gli evangelisti, specie Matteo (Mt 27,5) e Luca (At 1,18), si sarebbero serviti, sotto l’influsso particolare dei salmi (cfr. specialmente Sal 13-15) per evidenziare meglio l’atto dell’apostasia in tutta la sua empietà e le sue disperate conseguenze.
Tutto il ciclo narrativo poi è dottrinalmente guidato dal verbo «tradire-consegnare».
Importanti e rivelatori sono, nel ciclo di Giuda, alcune precisazioni giovannee di carattere teologico, come quella che, dopo il boccone offerto dal Maestro a Giuda, il demonio entrò in lui (Gv 13,27), e l’altra, strettamente collegata alla precedente, che il traditore, vistosi scoperto, uscì ed era notte fonda (Gv 13,30). Il demonio, che prima si era limitato a suggerire all’apostolo l’idea del tradimento, prende, in quel momento, pieno possesso di Giuda, non nel senso che questi di-venti uno strumento puramente meccanico, privo della sua respon-sabilità, ma in quanto cooperatore libero e consapevole dell’agente principale della lotta contro Cristo, cioè di satana. Iniziava così, nel senso dottrinale più denso, «l’ora delle tenebre» sia per Giuda caduto in potere di esse, sia per Cristo la cui attività didattico-taumaturgica veniva a cessare per dare inizio alla passione: momentaneo trionfo di satana, ben presto definitivamente debellato dalla luce della pasqua.
In questo modo, unitamente alla solita frase con cui gli evangelisti qualificano Giuda per «uno dei dodici», viene messo in rilievo il contrasto tra il vincolo di intimità esistente tra Gesù ed il traditore e la mostruosità con cui il discepolo ricambia questa intimità.
Commento al Vangelo
Quando Giuda fu uscito dal cenacolo – Giuda Iscariota esce dal cenacolo per recarsi dai capi dei sacerdoti per pattuire la ricompensa del suo tradimento (cfr. Mt 26,14-16). I Vangeli non dicono il vero motivo per il quale Giuda tradì il Maestro, anche se può essere dedotto da alcuni tratti molto inquietanti della sua personalità (cfr. Gv 12,1-6). Inoltre, l’evangelista Giovanni riferisce che era manovrato da Satana (cfr. Gv 13,2; 13,27).
Ma non si conoscerà mai «quel segreto rapporto che si è instaurato tra il discepolo di Gesù e Satana. In che modo il demonio è entrato in lui e lo ha dominato? Spesso è tenue il confine tra suggestione, vessazione e possessione demoniaca, specie quando crollano le difese interiori e si decide di stare dalla parte del male […]. Qualunque sia stata la porta d’ingresso di Satana, sta di fatto che Giuda ne divenne lo strumento libero e responsabile commettendo la più esecrabile scelleratezza» (Oscar Battaglia, Gesù e il demonio).
Al di là di ogni investigazione, le notizie evangeliche su Giuda vogliono suggerire unicamente che la passione fu un dramma in cui si trovò impegnato, come attore principiale, anzitutto il mondo invi-sibile delle tenebre (cfr. Lc 22,53): un gioco perverso nel quale venne responsabilmente coinvolto l’Iscariota. Spesso dietro gli uomini agisce la potenza diabolica: «Dopo aver esaurito ogni tentazione, il diavolo si allontanò da Gesù fino al momento fissato» (Lc 4,13; cfr. Gv 6,70s; 8,44; 12,31; 13,27; 16,11; 1Cor2,8; Ap 12,4.17).
«L’uscita di Giuda, in balìa di Satana, segna l’inizio della passione di Cristo, quindi nella prospettiva del quarto evangelista con tale atto incomincia la glorificazione di Dio e del Figlio dell’uomo. Il traditore, istigato dal demonio, fa precipitare gli eventi e tra qualche ora farà arrestare il Maestro. Gesù è consapevole di essere giunto alla vigilia della sua morte, egli perciò si premura di spiegare agli amici il vero significato della sua dipartita da questo mondo. La sua imminente uccisione sulla croce non rappresenta una disfatta o un soccombere dinanzi alla forza dei suoi nemici, satelliti di Satana, ma costituisce il suo trionfo, la sua glorificazione, il suo ritorno in cielo» (Salvatore Alberto Panimolle).
Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, Gesù con l’inizio della sua passione incomincia ad essere glorificato dal Padre: Il Figlio sarà glorificato dal Padre quando dagli uomini sarà innalzato sul trono regale della croce. Come il serpente di bronzo fu issato sull’asta da Mosè per salvare il popolo d’Israele dai morsi velenosi dei serpenti, così il Figlio dell’uomo sarà elevato sulla croce per salvare il mondo e liberarlo dal peccato e dalla morte (cfr. Gv 3,14): da quel trono regale manifesterà in pienezza la sua divinità e inizierà ad attirare a sé tutti gli uomini (cfr. Gv 12,32). Con tale glorificazione il Figlio dell’uomo sarà rivestito di quella gloria divina che aveva presso il Padre «prima che il mondo fosse» (Gv 17,5).
Figlioli, questo termine, presente una sola volta nel quarto Vangelo, nella prima lettera di Giovanni (2,1-12.28; 3,7.18; 4,4; 5,21) è usato per indicare i cristiani. Gesù come «padre-maestro si rivolge ai suoi discepoli-figli e con affetto e passione dà loro gli insegnamenti. Il diminutivo “figlioletti”, anziché il più usuale “figli”, indica l’interesse e l’amore di chi parla o scrive verso i destinatari del suo insegnamento» (Clara Achille).
Vi do un comandamento nuovo, dopo aver preannunciato la sua imminente morte, Gesù consegna agli Apostoli il comandamento del-l’amore definendolo nuovo. Nuovo perché supera il comandamento dell’amore della tradizione ebraica (cfr. Lv 19,18), nuovo perché si fonda sull’amore di Gesù.
Questo precetto è nuovo «per la perfezione a cui Gesù lo porta, e perché costituisce come il segno distintivo dei tempi nuovi, inaugurati e rivelati dalla morte di Gesù» (Bibbia di Gerusalemme).
Se Gesù ha amato i suoi amici (cfr. Gv 15,15) fino a donare, per la loro salvezza, la sua vita, così i discepoli devono amarsi gli uni gli altri: la misura dell’amore è il dono della vita, il martirio.
Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Un amore totale spinto fino al salire sulla croce a posto del fratello: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,13).
Le parole di Gesù – Amatevi come io vi ho amati – acquistano spessore e significato solo quando su esse si proietta la luce del Calvario. Lui, l’Innocente, ha amato fino alla follia della croce e ciò che ha valore agli occhi di Dio, in questa morte, è l’obbedienza d’amore che manifesta il sacrificio di una vita data interamente per gli altri: «umi-liò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Fil 2,8; cfr. Rm 5,19; Lc 22,42; Gv 15,13; Eb 10,9-10).
I discepoli, resi partecipi di questa morte per mezzo del battesimo (cfr. Rm 6,3-6), devono testimoniare la loro totale appartenenza al Cristo donando senza riserve la loro vita per gli altri. La carità per il cristiano non è un distintivo da appiccicare sul bavero della giacca, ma è il sigillo del Dio-Amore che marchia a fuoco il suo cuore.
Da questo tutti sapranno…, Gesù elimina ogni altro criterio di riconoscimento dei discepoli come l’osservanza di particolari leggi, ponendo come solo elemento distintivo la fraternità nell’amore. Di tutto questo si avrà una comprova agli inizi della Chiesa (At 2,42-47).
Riflessione
Dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni – Il mondo, quando è nella morsa del dolore, urla e si contorce, perché, privo della luce delle fede, non può comprendere il suo valore. Rifiuta la sofferenza perché la percepisce come castigo, come menomazione, come instabilità, una sfida alla sua intelligenza. Il mondo, assetato di grandezza e di gloria, rigetta il dolore perché gli impone di riconoscere l’impotenza dei propri limiti e della propria finitezza.
Per il credente le disgrazie non sempre sono un castigo (cfr. Lc 13,1-5), anzi ha la certezza che spesso celano una forza educatrice atte ad educare l’uomo, pedagogia divina che conduce alla salvezza: Dio «apre l’orecchio degli uomini e per la loro correzione li spaventa, per distogliere l’uomo dal suo operato e tenerlo lontano dall’or-goglio, per preservare la sua anima dalla fossa e la sua vita dal canale infernale. Talvolta egli lo corregge con dolori nel suo letto e con la continua tortura delle ossa… Ecco, tutto questo Dio fa, due, tre volte per l’uomo, per far ritornare la sua anima dalla fossa e illuminarla con la luce dei viventi» (Gb 33,15ss).
Per il credente «è una grazia non solo credere, ma anche soffrire per Cristo» (Fil 1,29): per questo motivo accoglie, nello Spirito, la tribolazione come via che conduce alla vera gioia, alla gioia della vita eterna (cfr. 2Mac 7,36).
I credenti non errano nel credere ciò, perché è stato loro rivelato che «tutti quelli che vogliono rettamente vivere in Cristo Gesù saranno perseguitati» (2Tm 3,12), e sanno con certezza che solo «quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» staranno «davanti al trono di Dio e gli presteranno servizio giorno e notte nel suo tempio» (Ap 7,14-15).
La vera gioia non è di questo mondo. L’uomo per quanto faccia non può sottrarsi al durissimo giogo del dolore, della tentazione, della malattia che lo conduce alla morte, solo «quando sarà distrutta la nostra dimora terrena… riceveremo da Dio un’abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna, nei cieli» (2Cor 5,1-2), dove Dio abiterà con gli uomini «ed essi saranno suoi popoli ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio. E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi e non vi sarà più la morte né lutto né lamento né affanno, perché le cose di prima sono passate» (Ap 21,3-4). Solo in Paradiso l’uomo vivrà nella perfetta gioia, quella vera: «Questa sarà la tua gloria e la tua felicità: essere ammesso a vedere Dio, avere l’onore di partecipare alle gioie della salvezza e della luce eterna insieme con Cristo, il Signore tuo Dio, […] godere nel regno dei cieli, insieme con i giusti e gli amici di Dio, le gioie dell’immortalità raggiunta» (CCC 1028).
La pagina dei Padri
Uomini nuovi in virtù del comandamento nuovo – San Gregorio Magno: Cristo ci ha dunque dato un nuovo comandamento, nel senso che ha detto di amarci l’un l’altro, così come egli ci ha amati. È questo amore che ci rinnova, affinché diveniamo uomini nuovi, eredi del Nuovo Testamento, cantori di un nuovo cantico… Amiamoci dunque l’un l’altro, e, per quanto possiamo, a vicenda aiutiamoci a possedere Dio nei nostri cuori. Questo amore ci dona colui che ci dice: «Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri» (Gv 13,34). Egli ci ha amati per renderci capaci di amarci a vicenda; questo ci ha concesso amandoci, che ci stringiamo con mutuo amore e, uniti quali membra da un sì dolce vincolo, siamo il corpo di un tanto augusto capo.
“In questo appunto tutti riconosceranno che voi siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). È come se avesse detto: Coloro che non sono miei discepoli, hanno in comune con voi altri doni, oltre la natura umana, la vita, i sensi, la ragione e tutti quei beni che sono propri anche degli animali; essi hanno anche il dono della conoscenza delle lingue, il potere di dare i sacramenti, quello di fare profezie; il dono della scienza o quello della fede, la capacità di distribuire ai poveri tutti i loro beni, e quella di sacrificare il loro corpo nelle fiamme. Ma se essi non hanno la carità, sono soltanto dei cembali squillanti: non sono niente, e tutti questi doni a loro niente giovano (cfr. 1Cor 13,1-3).
Non è dunque in queste grazie, sia pure eccellenti, e che possono esser date anche a chi non è mio discepolo, ma è «in questo che tutti riconosceranno che voi siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».