maggio, meditazioni

IV Domenica di Pasqua (C) – 12 Maggio 2019

IV Domenica di Pasqua (C) – 12 Maggio 2019

Dagli Atti degli Apostoli (13,14.43-52) – Ecco, noi ci rivolgiamo ai pagani: È sottolineato con forza l’universalismo della salvezza. Il testimone è passato ad un altro popolo: il Signore ha dato la vigna ad altri vignaioli che gli consegneranno i frutti a suo tempo (cfr. Mt 21,41). A motivo del rifiuto provvidenziale da parte d’Israele, la parola di Dio si diffonde tra i pagani. Ma il rifiuto del vangelo da parte dei Giudei non è mai totale: Luca ama sottolineare le conversioni avvenute tra i Giudei a Gerusalemme (At 2,41.47; 4,4; 6,1.7; 18,8; 28,24). Anche per Israele v’è un progetto di salvezza: «Quanto al vangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,28-29). I Giudei in quanto hanno rifiutato il Cristo «sono diventati nemici di Dio, e Dio ha permesso questo per favorire la conversione dei pagani (cfr. Rm 9,22; 11,11); ma essi rimangono l’oggetto della speciale dilezione che Dio ha manifestato ai loro padri prima del Cristo, nel tempo in cui il loro popolo era l’unico depositario dell’elezione» (Bibbia di Gerusalemme). La Chiesa muove i suoi passi tra mille difficoltà e infide persecuzioni le quali però non spengono l’entusiasmo dei neo convertiti, la diffusione sorprendente della Parola e la gioia dei missionari nel portare al mondo la Buona Novella.

Dal libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo (7,9.14-17) – L’Agnello sarà il loro pastore e li guiderà alle fonti delle acque della vita: Il veggente di Patmos contempla il Regno di Dio nel suo compimento celeste, quando il gregge di Cristo, una moltitudine immen­sa, avrà raggiunto i pascoli eterni. Una visione che è donata alla Chiesa, perché i cristiani che stanno «nella grande tribolazione» imparino a restare saldi nella fede contemplando la meta finale del loro pellegrinaggio.

Dal Vangelo secondo Giovanni (10,27-30) – Alle mie pecore io do la vita eterna: Gesù, buon Pastore, dona la vita eterna ai suoi discepoli, alle pecore che Egli ama «perché è veramente l’inviato del Padre che lo sostiene e garantisce nella sua azione; nei brevissimi versetti è però evidenziato anche il rapporto che le pecore devono instaurare con lui per ottenere tutto questo» (Don Angelo Ranon).

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, Gesù disse: «Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola».

Approfondimento

Gesù il «Buon Pastore» – R. T. (Pastore in Schede Bibliche Pastorali, EDB): Anche il Nuovo Testamento dimostra di conoscere la professione pastorale, sia perché i pastori sono tra i primi attori del racconto della nascita del Salvatore (Lc 2,8-20), sia perché le similitudini che analizzeremo lasciano trasparire una perfetta conoscenza delle abitudini pastorali (cfr. Gv 10,1-18.26-29; Lc 15,4-6; Mt 18,12-13). La preoccupazione comunque nel Nuovo Testamento non è di rendere edotti i lettori sulla vita dei pastori e la loro professione, ma di mostrare come le profezie messianiche sul pastore si siano perfettamente realizzate in Cristo. È il Vangelo di san Giovanni che estesamente ed espressamente si preoccupa di mettere in luce la figura di Gesù buon pastore; ma anche i sinottici, attraverso frequenti accenni, la lasciano palesamente trasparire. Gesù si considera innanzitutto il pastore (Mt 2,6; Mi 5,2) inviato per riunire le pecore disperse d’Israele (Mt 15,24; Lc 19,10; Mc 6,34). I suoi discepoli sono un piccolo gregge indifeso in mezzo a un branco di lupi (Mt 10,16), i quali, travestendosi da agnelli (Mt 7,15), si confonderanno nel gregge, uccideranno il pastore e disperde­ranno le pecore (Mt 26,31). Ma il pastore risorgerà e ricostituirà il suo gregge continuando a governarlo dal santuario eterno fino al giorno in cui si ripresenterà a giudicare le sue pecore  (1Pt 5,4), separando queste dai capri (Mt 25,31-32), e premiando ciascuno secondo i propri meriti. Queste immagini pastorali presenti nei sinottici trovano la loro massima espressione nella pericope giovannea del buon pastore (Gv 10). Il brano mostra una fedele descrizione di alcune abitudini pasto­rali. In Palestina i pastori sono soliti radunare più greggi, durante la notte, in un unico ovile circondato da mura e custodite. Chi, per entrare nell’ovile, ha bisogno di scavalcare il muro di cinta, non può essere che un ladro. Il pastore si fa infatti aprire la porta dal guardiano e chiama personalmente le sue pecore, che, conosciuta la voce, lo seguono. Le pecore si alzano e si mettono in movimento per uscire dall’ovile solamente se sono chiamate dalla voce familiare del loro pastore; rimangono invece immobili quando uno straniero o un altro pastore le chiama (Gv 10,1-5). Questa descrizione tipicamente pastorale serve da base a Gesù per l’insegnamento dei versetti successivi. Innanzitutto egli afferma categoricamente di essere la porta dell’ovile. Se dunque è la porta, tutti coloro che prima di lui si sono presentati come messia, non possono essere stati che ladri. Chi entrerà invece nel recinto dopo Gesù e attraverso di lui, sarà un vero pastore e potrà pascolare le sue pecore con autorità (Gv 19,6-9). Nei versetti 11-15, preparati dal versetto precedente, Gesù si definisce il buon pastore; ma egli non si accontenta di parole vaghe e diversamente interpretabili, ma specifica chiaramente l’entità e la misura della sua bontà in quanto pastore. Il buon pastore è colui che dà la vita per le sue pecore; che ama cioè le sue pecore più di se stesso, ed è disposto a sacrificarsi per il suo gregge. Non c’è amore più grande di colui che dà la vita per i propri fratelli (Gv 15,13). Gesù conosce (ama) le sue pecore e le sue pecore non possono fare a meno di ricambiare il suo amore. Tra il pastore e le pecore intercorre lo stretto rapporto amoroso esistente tra Gesù e il Padre, e viceversa. Il discorso di Gesù continua; e perché le sue affermazioni non siano comprese in senso particolaristico, e possano costituire un privilegio esclusivo per il popolo ebraico, egli afferma chiaramente di avere altre pecore che non appartengono ancora al suo ovile, ma che egli chiamerà affinché si faccia un solo ovile e un solo pastore (Gv 10,16). A questo punto non ci sono più dubbi: il messia pastore, annunciato dai profeti, non può essere che Gesù, mandato a  riscattare il gregge di Jahvé, a condurlo con amore, e a farlo pascolare nei prati eternamente verdi (Gv 10,26-29; Ap 7,17).

Commento al Vangelo

Le mie pecore ascoltano la mia voce… Io do loro la vita eterna – Gesù pronunzia queste parole nel tempio di Gerusalemme, nella festa della Dedicazione (cfr. Gv 10,22). Celebrata il 25 di Chisleu del 148, corrispondente al 15 dicembre del 164 a.C. (cfr. 1Mac 4,41-51; 2Mac 1,19), la festa commemorava la riconsacrazione dell’altare del tempio dopo la profanazione dell’esercito seleucida del 167 a.C. Presso gli Ebrei è ricordata con il nome originario di Hanukkà ed è celebrata ancora oggi. Gesù è il buon Pastore, i credenti sono le pecore che ascoltano la voce del Pastore: l’ascolto è il sigillo che contrassegna l’appartenenza al gregge di Cristo, Parola di Dio, fatta Carne (cfr. Ap 19,13; Gv 1,14). Ascolto è sinonimo di accoglienza attenta e obbediente della Parola che in questo modo diventa guida, «luce ai passi» del credente (Sal 119,105). L’ascolto è la caratteristica del discepolo cristiano e chi «ascolta la voce di Gesù, lo segue […]. Mettersi dietro le orme di questa guida significa percorrere tutto il tragitto da lui compiuto per giungere alla vetta del Calvario. Il buon Pastore infatti si mette alla testa del suo gregge e lo conduce ai pascoli della vita eterna, attraverso il cammino della croce e della rinuncia» (Salvatore Alberto Panimolle). Un cammino che va percorso fino in fondo e che non esclude, nel suo bilancio, il martirio per il Signore e il Vangelo (cfr. Ap 7,14). Gesù-Pastore conosce le sue pecore: una conoscenza che supera il campo dell’intelletto e sconfina nell’amore (cfr. Os 6,6; 1Gv 1,3). Nel vangelo di Giovanni «conoscenza e amore crescono insieme, per cui è difficile dire se l’amore è il frutto della conoscenza o la conoscenza è frutto di amore […]. L’amore è unito alla conoscenza quando il rapporto tra Gesù e il Padre è descritto come una reciproca conoscenza [Gv 7,29; 8,55; 10,15]. La stessa reciproca conoscenza è il vincolo tra Gesù e i suoi discepoli [Gv 10,14ss]» (John L. McKenzie). Questa profonda intimità genera nel cuore dei credenti il frutto della vita eterna: essendo stati «rigenerati non da un seme corruttibile ma incorruttibile, per mezzo della parola di Dio viva ed eterna» (1Pt 1,23), i credenti gustano la gioia della vita eterna adesso, nelle pieghe di una quotidianità a volte impastata di peccato e di acute contraddizioni. Questa intensa comunione di amore con il Cristo sarà portata perfettamente a compimento nel Regno dei Cieli: solo nel Regno i credenti, strappati dalla contingenza della vita terrena, non «avranno più fame né avranno più sete, non li colpirà il sole né arsura alcuna… Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi» (Ap 7,16-17). In attesa di questi beni, la comunione amorosa con il Buon Pastore dona ai discepoli già ora pace, serenità e sicurezza. «Colui che si affida a Gesù con la fede trova in lui quella sicurezza assoluta che non trova mai in alcuna sicurezza o protezione umana. In lui infatti è presente il potere divino. Lo stesso potere viene poi attribuito al Padre e la stessa sicurezza proviene dalla certezza che “ciò che mi ha dato” [cfr. 6,36-40] nessuno lo può rapire dalla mano del Padre [cfr. Is 43,13; Sap 3,1]. In questi due versetti 28-29 si riflette la serena esperienza della comunità giovannea che si sentiva il gregge protetto dal Figlio di Dio e che nessuno poteva rapire: né le persecuzioni [16,4] né le eresie [1Gv]» (Giuseppe Segalla). Questa sicurezza è significata anche dalle parole di Gesù che rivelano l’identità di sostanza tra lui e il Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola». In questo modo i credenti vicini al Cristo sentono una sicurezza assoluta e totale. Nessuno li strapperà dalle mani del Cristo: «Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? […]. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,35-39). I discepoli di Cristo devono solo temere il peccato che li seduce a trovare altre strade, lontane dal percorso del gregge guidato da Cristo.

Riflessione

Era necessario che fosse proclamata prima di tutto a voi la parola di Dio, ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna… Chi rimane escluso dalla salvezza lo addebiti solo al suo cuore ostinato e alla sua testa dura «come il diamante» (cfr. Ez 3,1-7). Chi si nega alla Luce, costui è colpevole della sua incredulità e della sua cecità perché a nessuno Dio nega la sua grazia per credere e salvarsi. A tale proposito insegna san Tommaso d’Aquino: «Posso vedere in virtù della luce del sole, ma se chiudo gli occhi, non vedo: ciò accade non per colpa del sole, bensì per mia colpa, perché, chiu­dendo gli occhi, impedisco alla luce solare di giungervi». È il dramma del popolo eletto: gli Israeliti che «hanno l’adozione a figli, la gloria, le alleanze, la legislazione, il culto, le promesse, i patriarchi e da loro proviene Cristo secondo la carne» (Rm 9,4-5), in «massa hanno detto di no al vangelo, ponendosi al di fuori dell’unico spazio di salvezza… Hanno respinto una parola vicina; si sono autoesclusi da una possibilità di salvezza a portata di mano. Non possono dunque accampare alcuna scusante o attenuante» (R. T. – G. B.). Del suo popolo, per bocca del profeta Isaia, Dio «poi arriva fino a dire: Sono stato trovato da quelli che non mi cercavano, mi sono manifestato a quelli che non chiedevano di me, mentre d’Israele dice: Tutto il giorno ho steso le mani verso un popolo disobbediente e ribelle!» (Rm 10,20-21). Un popolo «disobbediente e ribelle» che ha rifiutato, nella pienezza del tempo (Gal 4,4), di accogliere il Cristo come il figlio di Dio, come Redentore: «Se avessi compreso anche tu, in questo giorno, quello che porta alla pace! Ma ora è stato nascosto ai tuoi occhi. Per te verranno giorni in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee… distruggeranno te e i tuoi figli dentro di te e non lasceranno in te pietra su pietra, perché non ha riconosciuto il tempo in cui sei stata visitata» (Lc 19,41-44). «Come attesta la sacra Scrittura, Gerusalemme non ha conosciuto il tempo in cui è stata visitata; gli Ebrei in gran parte non hanno accettato il Vangelo, ed anzi non pochi si sono opposti alla sua diffusione» (NA 4). È per questo motivo che Israele si è trovato inopinatamente fuori dal progetto salvifico. Un vero e proprio paradosso: il disegno salvifico «è affidato a un popolo che lo custodisce gelosamente per più secoli e al momento della sua realizzazione si trova schierato contro, mentre coloro che l’avevano da sempre ignorato ne sono i beneficiari… Gli Israeliti si trovano schierati contro il piano di Dio; i pagani, al pari dei pubblicani, diventano gli eredi delle promesse» (Ortensio Da Spinetoli). Ma tutto è misericordia, pedagogia amorosa. Da una parte, Dio suscita la gelosia di Israele con la conversione di pagani che entrano a far parte del popolo di Dio perché riprenda il proprio posto nel progetto della salvezza, dall’altra, l’indurimento del popolo eletto è ordinato all’istruzione dei cristiani: «Tutte queste cose… accaddero [agli Israeliti] come esempio, e sono state scritte per ammonimento nostro» (1Cor 10,11). I credenti illuminati da questi esempi rifiutino quindi di accampare diritti, scivolerebbero nell’errore del popolo eletto. L’immane tragedia che ha colpito Israele può colpire anche il cristiano, nessuno quindi si illuda di essere al sicuro: «Non montare dunque in superbia, ma temi! Se infatti Dio non ha risparmiato quelli che erano rami naturali, tanto meno risparmierà te!» (Rm 11,20b-21). È certo che le pecore di Cristo in questo mondo dovranno lottare e soffrire oltraggi e persecuzioni, ma avendo posto la loro speranza nel Figlio di Dio e restando uniti nell’unico gregge di Cristo, niente e nessuno riuscirà a strapparle dalle sue mani (cfr. Rm 8,38-39). Il discepolo di Cristo deve solo temere il peccato che lo seduce a trovare altre strade, lontano dal percorso del gregge guidato da Gesù. Se la Chiesa, una, santa e indefettibile, come popolo di Dio poggia la sua sicurezza sull’amore infinito di Cristo, il credente a tanto amore deve aggiungere sincera corrispondenza di intenti, perché la tentazione è subdola e può cogliere di sorpresa il cuore del cristiano: anche per lui il Cristo può diventare pietra d’inciampo e i doni causa di rovina: «La comunione con il tuo Corpo e il tuo Sangue, Signore Gesù Cristo, non diventi per me giudizio di condanna, ma per tua misericordia sia rimedio e difesa dell’anima e del corpo» (Liturgia).

La pagina dei Padri

Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me [Gv 10,14] – Gregorio Magno: Esaminatevi, fratelli carissimi, per vedere se siete veramente le sue pecore; esamimatevi per vedere se lo conoscete e se non ignorate la luce della verità. Io intendo dire: se conoscete, non nella fede, ma nell’amore; se conoscete, dico, non a parole, ma a fatti. Lo stesso evangelista Giovanni, che ci ha detto queste cose, conferma dicendo: Chi afferma di conoscere Dio e non segue i suoi comandamenti, è mentitore [1Gv 2,4]. E nel nostro testo il Signore aggiunge: Così come il Padre conosce me, io conosco il Padre e do la mia vita per le mie pecore [Gv 10,15]. È come se dicesse chiaramente… questa carità che mi fa morire per le mie pecore, dimostra quanto io ami il Padre… E di queste pecore dice ancora: Le mie pecore odono la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono e io do loro la vita eterna [Gv 10,27-28]. Un po’ sopra aveva detto di loro: Se qualcuno entra per mezzo mio sarà salvo; entrerà, uscirà e troverà pascoli  [Gv 10,9]. Entrerà con la fede, uscirà invece passando dalla fede alla visione, dalla facilità a credere alla contemplazione e troverà pascoli nell’eterno festino. Le sue pecore troveranno pascoli, perché chiunque lo segue con cuore semplice, è nutrito con pascoli eternamente ubertosi. E quali sono i pascoli di queste pecore se non le gioie intime di un paradiso sempre verdeggiante? Infatti il pascolo degli eletti è il volto sempre presente di Dio. Mentre lo si contempla in maniera indefettibile, la mente si sazia in eterno del cibo della vita… Fratelli, riempiamo d’ardore il nostro cuore; che la nostra fede si consolidi e si infiammi il nostro desiderio per le cose celesti… Nessuna avversità ci distolga dall’intima gioia di questa festa, perché se qualcuno desidera raggiungere il fine che si è stabilito, nessuna asperità del cammino potrà arrestare il suo ardore. Nessuna seducente prosperità ci lusinghi, perché sarebbe stolto il viaggiatore che – guardando l’ameno paesaggio – dimenticasse di andare dove voleva.

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