aprile, Liturgia

V Domenica di Quaresima (C) 7 Aprile 2019

      Dal libro del profeta Isaìa (43,16-21) – Ecco, faccio una cosa nuova e darò acqua per dissetare il mio popolo: Il vaticinio è rivolto a Israele, popolo «sordo» e «cieco» (cfr. Is 43,8), perché si affranchi dalla paura e si apra alla speranza. La «cosa nuova» che Dio sta preparando per il suo popolo è la fine della prigionia. Con potenza Dio trasformerà interiormente Israele e lo renderà capace di dargli gloria: «Il popolo che io ho plasmato per me celebrerà le mie lodi». Come Dio, ai tempi dell’esodo, rese asciutto il Mar Rosso per far transitare Israele, così ora aprirà «nel deserto una strada»; immetterà «fiumi nella steppa», che serviranno a dissetare il suo popolo. Il Signore Dio, per tale prodigio, sarà glorificato dalle bestie selvatiche della steppa e lodato dal suo popolo. Tale unisono di lodi sta a significare che la salvezza del popolo eletto coinvolge l’intero universo.

  Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (3,8-14) – A motivo di Cristo, ritengo che tutto sia una perdita, facendomi conforme alla sua morte: Agli eterni litigiosi, Giudei e Giudeo-cristiani, incapaci di staccarsi dall’osservanza della Legge, Paolo dichiara che per lui ormai conta solo Gesù Cristo, la sua «sublime conoscenza», la fede in lui, «la comunione alle sue sofferenze… nella speranza di giungere alla risurrezione dei morti». Paolo poggia questa speranza su due preziosi elementi: da una parte, perché, per pura benevolenza, è stato conquistato da Cristo Gesù; dall’altra lui, l’apostolo, si sforza di correre «verso la mèta» per conquistare Cristo. Una somma di sforzi: tutto è grazia, tutto è generosa adesione umana.

  Dal Vangelo secondo Giovanni (8,1-11) – Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei: Da molti esegeti, per motivi di critica testuale e letteraria, la storia dell’“adultera perdonata” è ritenuta un masso erratico proveniente dalla tradizione sinottica. La pericope, al di là della questione dell’adulterio, mette in risalto la misericordia di Gesù perfettamente in sintonia con l’amore misericordioso del Padre celeste: «Io non godo della morte del malvagio, ma che il malvagio si converta dalla sua malvagità e viva» (Ez 33,11). Gesù non è venuto «per condannare il mondo, ma per salvare il mondo» (Gv 12,47; cfr. Gv 8,15): l’invito perentorio rivolto alla donna adultera di non peccare più è una forte spinta a uscire fuori dalla miseria del peccato per incominciare una vita nuova. In questa luce, il racconto giovanneo, è un appello rivolto a tutti gli uomini perché, smettendo di giudicarsi a vicenda, sentano il bisogno di essere salvati da Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni

  In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interro-garlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più».

Approfondimento

      Il perdono di Dio e il perdono dell’uomo – G. B. (Perdono in Schede Bibliche Pastorali, EDB): Nella preghiera di gruppo insegnata da Gesù ai suoi discepoli una supplica è: «Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori» (Mt 6,12); «Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore» (Lc 11,4).  C’è dunque un inscindibile nesso tra il perdono concessoci da Dio e il perdono nostro al prossimo.

  La cosa sta particolarmente a cuore a Matteo che fa seguire al Padre nostro, in particolare all’invocazione del perdono divino, la seguente affermazione: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi; ma se non perdonerete agli uomini, neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (6,14-15). Si noti che il perdono atteso da Dio e condizionato al perdono del prossimo sembra in prospettiva escatologica; in altre parole, saremo accolti misericordiosamente nel regno di Dio il giorno ultimo, se nella storia avremo perdonato i torti del nostro prossimo.

  Da parte sua, Marco che non ha il Padre nostro conosce però il detto seguente di Cristo: «Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati» (11,25).

  Si deve allora ritenere che il perdono di Dio sia in tutto condizionato al nostro perdono accordato al prossimo?

  Nella parabola del servo spietato, attestata in Mt 18,23-35, Gesù illustra il dovere del perdono illimitato da concedere al fratello. Il racconto parabolico tiene dietro al dialogo tra Gesù e Pietro: alla domanda del discepolo quante volte dovrà perdonare al fratello, sino a sette volte, il maestro risponde: sino a 77 volte (Mt 18,21-22). Il primo evangelista allude qui al feroce Lamec e alla sua vendetta indiscriminata, per dire che il comandamento di Gesù (perdono illimitato, sino a 77 volte) annulla la legge della giungla instaurata dalla stirpe dei cainiti (cfr. Gen 4,23-24). Nella versione di Luca, più fedele al detto originario di Gesù, si parla di perdono sino a 7 volte, numero simbolico di pienezza e di completezza, dunque indicante perdono illimitato (cfr. Lc 17,4).

  Nella parabola poi Gesù mette in stretto rapporto il condono ricevuto e il condono da accordare. Il servo spietato, che ha ottenuto, al di là di ogni attesa, il condono di un debito enorme (il prezzo di sessanta milioni di giornate lavorative), è moralmente obbligato a condonare al suo collega un debito normale, corrispondente al prezzo di cento giornate lavorative: «Non dovevi forse anche tu aver pietà del tuo compagno, come io ho avuto pietà di te?» (18,33).

  Ma colui che è stato perdonato non sa essere «perdonatore» del fratello; perciò sarà condannato con durezza. Ed ecco la conclusione redazionale dell’evangelista: «Così anche il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi [= giudizio di condanna], se non perdonerete di cuore al vostro fratello» (v. 35).

  La prospettiva è senza dubbio quella escatologica del rendiconto, precisamente della condanna, se nella storia non si avrà perdonato di cuore al fratello.

  Ma nella parabola di Gesù l’accento sta sulla connessione tra perdono ricevuto e perdono da accordare; in altre parole, chi è stato beneficiario del perdono divino dovrà coerentemente sentirsi obbligato a perdonare a sua volta al prossimo.

  Dunque all’inizio c’è il perdono di Dio, perdono ricevuto senza alcun merito. Quest’esperienza poi suscita e fonda il dovere di perdonare al fratello e nel giudizio ultimo infine il perdono di Dio sarà condizionato dal perdono nostro al prossimo. In breve, il perdono da accordare al fratello sta tra due perdoni di Dio, quello storico e quello escatologico; dal primo esso è fondato e giustificato, riguardo al secondo si pone come condizione sine qua non.

Commento al Vangelo

  Gli conducono una donna sorpresa in adulterio – Il conflitto tra i farisei, gli scribi e Gesù non è ancora esploso in tutta la sua violenza, sarà la risurrezione di Lazzaro a fare precipitare irreversibilmente la situazione: «… quel giorno dunque decisero di ucciderlo» (Gv 11,53). Pur tuttavia i rapporti sono molto tesi e i sinedriti tallonano il giovane Rabbi, lo spiano per coglierlo in fallo «per poi accusarlo» (Mc 3,2). Per raggiungere il loro obiettivo, gli scribi e i farisei, conducono, quindi, a Gesù una donna sorpresa in adulterio, un reato che la Legge mosaica condannava con la pena capitale (cfr. Dt 22,22; Lv 20,10). In genere, la Legge mosaica non determinava il modo, la morte veniva inferta o per strangolamento o per spada o per lapidazione; solo per la fidanzata infedele categoricamente veniva intimata la pena della lapidazione (cfr. Dt 22,23 ss).

  I farisei pongono l’adultera nel mezzo perché sia ben visibile a tutti. Mostrano in questo modo la loro poca sensibilità verso i loro simili: la donna, anche se colta in flagrante adulterio, ai loro occhi, doveva restare pur sempre una persona. Si autodenùnciano come uomini gretti, abietti, disposti a tutto pur di raggiungere i loro obiettivi illeciti.

  La povera donna è solo un’esca, perché, come ci suggerisce il Vangelo, le reali squallide intenzioni dei farisei sono tese unicamente a cogliere in fallo Gesù, «per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo» (Gv 8,6).

  Il gioco maligno, d’altronde mai riuscito (cfr. Mt 22,15-22), era di una estrema semplicità: se Gesù avesse assolto la donna l’avrebbero accusato di infrangere la Legge di Mosè; se l’avesse condannata, oltre a perdere la sua buona fama di uomo misericordioso, avrebbe infranto la legge di Roma in quanto soltanto i suoi tribunali avevano il diritto di comminare pene capitali. In ogni caso, avrebbero avuto modo di accusarlo o al Sinedrio o a Pilato.

  I farisei da Gesù già rimproverati in altre simili occasioni, avevano dimenticato prestamente il monito loro rivolto: imparate «che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrifici» (Mt 9,13).

  La lezione non l’avevano imparata tanto d’insistere in pratiche disumane come la lapidazione. Nonostante l’arroganza e l’insistenza degli interlocutori, Gesù è tranquillo, imperturbabile, lo dimostra chinandosi e mettendosi a scrivere col dito per terra (Gv 8,6). Inutile investigare per conoscere cosa scrivesse Gesù: il verbo katagraph significa tracciare segni, disegnare, ma anche mettere per iscritto un’accusa. I Padri della Chiesa interpretano questo gesto con Geremia 17,13, dove è minacciata la rovina per quanti sono infedeli a Dio: «O speranza di Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere, perché hanno abbandonato il Signore, fonte di acqua viva».

  Poiché gli accusatori della donna non si rassegnano, Gesù dà prova della sua saggezza e della sua misericordia con una risposta lapidaria: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (Gv 8,7). Se tutti siamo peccatori (cfr. Rm 3,9ss; 5,12) e «tale è la condizione dell’uomo, come può un peccatore infierire contro chi è stato vittima della stessa debolezza umana? […]. L’espressione scagli per primo una pietra riecheggia Dt 13,1 dove si ordina che i testimoni oculari devono dar inizio all’esecuzione della condanna a morte. Dopo una risposta tanto saggia, Gesù non guarda più gli accusatori, ma di nuovo si china per scrivere sulla terra. Evidentemente il Maestro ha sconcertato gli avversari; essi aspettavano che prendesse posizione sulla questione legale; invece ha ricordato ai giudici che non sono senza peccato e quindi non possono condannare. Il gesto del Maestro, di chinarsi per non fissare gli accusatori, vuol porre i giudici dinanzi alle loro responsabilità e invitarli a una decisone sincera e libera» (S. Panimolle).

  I farisei e gli scribi, disorientati e disarmati dalla sapienza divina, non possono fare altro che allontanarsi, cominciando «dai più anziani»: questo particolare sembra ispirarsi alla storia di Susanna e dei «due anziani pieni di perverse intenzioni» (Dn 13,1ss).

  Sgombrato il campo, Gesù rimane solo con l’adultera: è l’incontro «dell’innocenza con chi ha commesso peccato: la scena diventa una illustrazione plastica dell’invito al pentimento. Dio odia il peccato e ama il peccatore… Gesù, benché non giudichi e non condanni, invita la donna a non peccare più […]. La legge condanna il peccato non perché gli uomini si giudichino a vicenda, ma perché essi sentano il bisogno di essere salvati da Dio. Gesù porta in sé questa salvezza: odia infinitamente il peccato, ama infinitamente il peccatore. Questo è possibile soltanto a Dio» (P. G. Ferraro s.j.).

  La storia dell’adultera, posta alla fine del cammino quaresimale, suggerisce ai credenti l’esperienza gioiosa che essi fanno nel sacramento della Penitenza. Un invito pressante a fare Pasqua.

Riflessione

  «Relicti sunt duo, misera et misericordia» (Sant’Agostino) – Nel tentativo di cogliere in fallo Gesù, i farisei e gli scribi si servono di un sotterfugio: gli trascinano dinanzi una donna colta in flagrante adulterio. Solo un espediente, ma non si fanno scrupolo di esporre la povera sventurata al dileggio della folla. Ciechi tutori della Legge, non si rendono conto che è mostruoso amministrare la giustizia calpestando la dignità della persona umana nella quale, come maestri della Parola, avrebbero dovuto cogliere l’immagine di Dio secondo cui era stata creata (cfr. Gen 1,27).

  «La dignità umana si radica nella creazione ad immagine e somiglianza di Dio. Dotata di un’anima spirituale e immortale, d’intelli-genza e di libera volontà la persona umana è ordinata a Dio e chiamata alla beatitudine eterna» (CCC Compendio 358). Come verità fondamentale, ma non soltanto per i credenti, «la giustizia sociale non può essere ottenuta se non “nel rispetto della dignità trascendente dell’uomo”, perché la persona umana rappresenta sempre lo scopo ultimo verso cui è orientata la società» (CCC 1929).

  La stima della persona umana implica sempre «il rispetto dei diritti che scaturiscono dalla sua dignità di creatura. Questi diritti sono anteriori alla società e ad essa si impongono. Essi sono il fondamento di ogni autorità: una società che li irrida o rifiuti di riconoscerli nella propria legislazione positiva, mina la propria legittimità morale. Se manca tale rispetto, un’autorità non può che appoggiarsi sulla forza o sulla violenza per ottenere l’obbedienza dei propri sudditi» (CCC 1930). E ancora, il rispetto della persona umana «non può assolutamente prescindere dal rispetto di questo principio: “I singoli” devono “considerare il prossimo, nessuno eccettuato, come un altro se stesso, tenendo conto della sua vita e dei mezzi necessari per viverla degnamente”» (CCC 1931). Calpestando questo principio fondato sulla carità, nessuna legislazione «sarebbe in grado, da se stessa, di dissipare i timori, i pregiudizi, le tendenze all’orgoglio e all’egoismo, che ostacolano l’instaurarsi di società veramente fraterne. Simili comportamenti si superano solo con la carità, la quale vede in ogni uomo un “prossimo”, un fratello» (CCC 1931).

  I farisei avvelenati dalla legge del taglione «occhio per occhio, dente per dente» (Es 21,23) sono incapaci di amare: avrebbero dovuto sentire il dovere di farsi prossimo per quella sventurata donna perché bisognosa di tutto; avrebbero dovuto capire che invece delle pietre aveva bisogno di amore perché bisognosa di un aiuto sincero per ritrovare la via della conversione; aveva bisogno che le indicassero la Via (cfr. Gv 14,6) per ritornare tra le braccia del Padre.

  Gli antichi erano soliti scrivere sui sepolcri Sit tibi terra levis (la terra ti sia lieve). Parole che a volte, in tono scherzoso, si usavano per dire: Va’! i tuoi errori, i fastidi che ci hai dato siano perdonati.

  I farisei non volevano rinunciare a questo rito, ma c’era un problema: l’adultera era viva e la tomba vuota. Urgeva quindi ammazzare la donna e poi vergare, forse con mano tremula, sulla tomba Sit tibi terra levis. Ipocrita perdono postumo: una prassi che è diventata abitudine e che ha messo profonde radici nel cuore di molti!

La pagina dei Padri

  Verità, bontà, giustizia e misericordia – Sant’Agostino: Che cosa ha voluto mostrarvi, quando scriveva con il dito in terra? Ha voluto mostrarvi che la legge è stata scritta col dito di Dio e che, a causa della durezza dei cuori, essa è stata scritta sulla pietra (cfr. Es 31,18). E ora il Signore scriveva sulla terra perché cercava il frutto della legge.

  Voi avete inteso: «si compia la legge», «sia lapidata l’adultera»: ma nel punire la donna, la legge dovrà essere applicata da coloro che a loro volta debbono essere puniti? Ciascuno di voi consideri se stesso, entri in se medesimo, si ponga dinanzi al tribunale della sua anima, si costituisca alla sua coscienza, e obblighi se stesso a confessarsi. Egli solo sa chi è, poiché nessun uomo conosce i segreti di un altro, se non lo spirito medesimo dell’uomo che è dentro di lui. Ciascuno, guardando in se stesso, si scopre peccatore (cfr. 1Cor 2,11). Non c’è alcun dubbio su questo. Quindi, lasciate andare questa donna, oppure accettate con lei le pene previste dalla legge.

  Se il Signore avesse detto: Non lapidate l’adultera!, sarebbe stato accusato di ingiustizia; se avesse detto: Lapidatela!, non sarebbe apparso mansueto. Che formuli dunque una risposta che a lui si addice, che è mansueto e giusto: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo una pietra contro di lei». Questa è la voce della giustizia: si punisca la peccatrice, ma non siano i peccatori a punirla; sia rispettata la legge, ma non siano i violatori della legge a imporne il rispetto. Ben a ragione è la voce della giustizia.

 

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