4 Aprile 2019 – Giovedì, IV di Quaresima – (Es 32,7-14; Sal 105[106]; Gv 5,31-47) – I Lettura: “Mentre il Signore, sul monte, dona a Mosè la Legge, ai piedi del monte il popolo la trasgredisce. Stanco di un cammino con un Dio invisibile, ora che anche Mosè, il mediatore, è sparito, il popolo chiede una presenza tangibile, toccabile, del Signore, e trova nel vitello di metallo fuso fatto da Aronne, un dio reso accessibile, manovrabile, alla portata dell’uomo. È questa una tentazione costante nel cammino di fede: eludere il mistero divino costruendo un dio comprensibile, corrispondente ai propri schemi, ai propri progetti” (Benedetto XVI, Udienza Generale, 1 giugno 2011). Vangelo: Secondo la legge di quel tempo la testimonianza che uno rende a se stesso, va suffragata con l’attestazione di altre persone, e Gesù chiama in causa a suo favore tre testimoni: Giovanni Battista, i miracoli che ha fatto e il Padre stesso. Ma di fronte alla durezza di cuore di chi gli sta davanti, Gesù non si ferma e chiama in causa addirittura Mosè, vale a dire quelle Scritture sulle quali essi si fondano per rifiutarLo.
Vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza – Dal Vangelo secondo Giovanni: In quel tempo, Gesù disse ai Giudei: «Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce. Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato. E anche il Padre, che mi ha mandato, ha dato testimonianza di me. Ma voi non avete mai ascoltato la sua voce né avete mai visto il suo volto, e la sua parola non rimane in voi; infatti non credete a colui che egli ha mandato. Voi scrutate le Scritture, pensando di avere in esse la vita eterna: sono proprio esse che danno testimonianza di me. Ma voi non volete venire a me per avere vita. Io non ricevo gloria dagli uomini. Ma vi conosco: non avete in voi l’amore di Dio. Io sono venuto nel nome del Padre mio e voi non mi accogliete; se un altro venisse nel proprio nome, lo accogliereste. E come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio? Non crediate che sarò io ad accusarvi davanti al Padre; vi è già chi vi accusa: Mosè, nel quale riponete la vostra speranza. Se infatti credeste a Mosè, credereste anche a me; perché egli ha scritto di me. Ma se non credete ai suoi scritti, come potrete credere alle mie parole?».
Riflessione: “Un lungo vangelo, quello di oggi, che ci segnala lo scorrere del tempo di quaresima e l’avvicina-mento del tempo pasquale. Giovanni concepisce il suo vangelo come un lungo processo tra luce e tenebre e, nell’ennesima discussione di oggi, Gesù afferma due scomode verità. La prima è che l’esperienza di Israele porta verso di lui, che davvero egli è il compimento delle attese e delle promesse ad Israele. Come cristiani siamo chiamati a conoscere l’esperienza di Israele, a rileggerne la storia e le profezie come preparazione alla venuta del Maestro. I cristiani conoscono poco e male l’Antico Testamento e ancora peggio la fede e la costanza dei nostri fratelli maggiori, gli ebrei, cui dobbiamo la Scrittura e il Signore Gesù, ebreo. La seconda verità ci è ancora più scomoda: Gesù dice che non può venire riconosciuto da coloro che prendono gloria gli uni dagli altri. Ah, che dura verità, questa! Se sono tutto coinvolto e assorbito dalla mia esteriorità e da ciò che pensa la gente di me, difficilmente riuscirò ad essere sufficientemente libero per scoprire la presenza di Dio. […] Rendici umili, Signore, cioè autentici, per potere accogliere la tua Parola di vita” (Paolo Curtaz).
La Parola di Dio commentata dal Magistero della Chiesa: Mosè allora supplicò il Signore, suo Dio… – Benedetto XVI (Catechesi, 1 Giugno 2011): La supplica di Mosè è tutta incentrata sulla fedeltà e la grazia del Signore. Egli si riferisce dapprima alla storia di redenzione che Dio ha iniziato con l’uscita d’Israele dall’Egitto, per poi fare memoria dell’antica promessa data ai Padri. Il Signore ha operato salvezza liberando il suo popolo dalla schiavitù egiziana; perché allora – chiede Mosè – «gli Egiziani dovranno dire: “Con malizia li ha fatti uscire, per farli perire tra le montagne e farli sparire dalla faccia della terra”?» (Es 33,12). L’opera di salvezza iniziata deve essere completata; se Dio facesse perire il suo popolo, ciò potrebbe essere interpretato come il segno di un’incapacità divina di portare a compimento il progetto di salvezza. Dio non può permettere questo: Egli è il Signore buono che salva, il garante della vita, è il Dio di misericordia e perdono, di liberazione dal peccato che uccide. E così Mosè fa appello a Dio, alla vita interiore di Dio contro la sentenza esteriore. Ma allora, argomenta Mosè con il Signore, se i suoi eletti periscono, anche se sono colpevoli, Egli potrebbe apparire incapace di vincere il peccato. E questo non si può accettare. Mosè ha fatto esperienza concreta del Dio di salvezza, è stato inviato come mediatore della liberazione divina e ora, con la sua preghiera, si fa interprete di una doppia inquietudine, preoccupato per la sorte del suo popolo, ma insieme anche preoccupato per l’onore che si deve al Signore, per la verità del suo nome. L’intercessore infatti vuole che il popolo di Israele sia salvo, perché è il gregge che gli è stato affidato, ma anche perché in quella salvezza si manifesti la vera realtà di Dio. Amore dei fratelli e amore di Dio si compenetrano nella preghiera di intercessione, sono inscindibili. Mosè, l’intercessore, è l’uomo teso tra due amori, che nella preghiera si sovrappongono in un unico desiderio di bene.
Voi scrutate le Scritture… – Giovanni Paolo II (Omelia, 17 Marzo 1983): Ci troviamo nel centro stesso di quella disputa, che Gesù di Nazaret conduce con i suoi contemporanei, rappresentanti di Israele. Proprio essi, più di qualsiasi altro, potevano riconoscere in Cristo la testimonianza di Dio stesso. Infatti, erano a ciò particolarmente preparati. Cristo dice: “Voi scrutate le Scritture credendo di avere in esse la vita eterna; ebbene, sono proprio esse che mi rendono testimonianza. Ma voi non volete venire a me per avere la vita” (Gv 5,39-40). Non volete… La controversia, che Cristo svolge con i suoi contemporanei in Israele, riguarda la promessa che quel popolo eletto aveva ricevuto nell’antica alleanza: Cristo viene come compimento di quella Promessa. Ed ecco, non vogliono accoglierlo. Quindi, egli disputa con essi, richiamandosi all’autorità che per essi era la più grande: Mosè. Dice: “Se credeste infatti a Mosè, credereste anche a me, perché di me egli ha scritto” (Gv 5,46). E perciò aggiunge: “Non crediate che sia io ad accusarvi davanti al Padre; c’è già chi vi accusa, Mosè, nel quale avete riposto la vostra speranza” (Gv 5,45). Così, dunque, si svolge una sorta di lite. Essa ha in un certo senso le caratteristiche di un processo giudiziario. Cristo si richiama ai testimoni. Testimone è Mosè e tutto il Vecchio Testamento fino a Giovanni Battista. Testimone è la Scrittura e testimone è tutta l’attesa del Popolo eletto. Ma, soprattutto, testimone sono le “ope-re” che Cristo compie per intervento del Padre. Dinanzi a questa testimonianza, i testimoni dell’antica alleanza, e soprattutto Mosè, assumono ancora un nuovo carattere: si prestano nel ruolo di accusatori. Sembrano dire: perché non accogliete Gesù di Nazaret, dato che tutto indica che proprio egli è Colui che Dio ha mandato conformemente alla Promessa? Con questa domanda, quei testimoni sembrano addirittura accusare!
La Parola di Dio commentata dai Padri della Chiesa: «Mio buon Gesù, più di tutto ti amo per il calice che hai bevuto al fine di riscattarci… È quest’atto che attira con grande dolcezza il nostro amore, lo esige a più giusto titolo, lo vincola più saldamente, lo rende più veemente. Il nostro Salvatore ha patito molto quel giorno, il Creatore non ha fatto la stessa fatica a formare l’intero universo. Infatti ha parlato e tutto è stato creato, mentre il Salvatore doveva affermare le sue parole davanti agli accusatori, difendere le sue azioni contro chi gli era ostile, subire la tortura davanti a chi lo beffeggiava e la morte in mezzo alle ingiurie. Ci ha amati fino a quel punto. E poi non era un amore che restituiva a qualcuno, ma che dava lui, per primo. Infatti “chi gli ha dato qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio?” [Rm 11,35]. Come dice ancora l’evangelista Giovanni: “Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi” [1Gv 4,10]» (San Bernardo).
Silenzio / Preghiera / La tua traccia: Come in tutte le religioni, anche in quella del popolo d’Israele la preghiera costituisce il modo in cui l’uomo si rivolge a Dio. Essa abbraccia tutte le situazioni della vita, è domanda (anche per le cose materiali, cfr. Sal 128), supplice intercessione (Es 32,11-14), preghiera penitenziale (Esd 9,6-37), ringraziamento, lode (Sal 7,18; 136). Anche la preghiera di domanda come quella penitenziale contiene motivi di lode per opere di Dio. Si prega nel culto ed in qualsiasi altro luogo (cfr. 2Re 20,2s). Gesù pregava spesso ed insegnò a pregare ai suoi discepoli. In Cristo è stato aperto un nuovo accesso a Dio (Eb 4,16); le domande saranno esaudite. Tuttavia la preghiera dei cristiani deve provenire da un giusto atteggiamento: vera fede (Mt 6,5s), confidenza (Mc 11,24), perseveranza (Lc 11,5-13), umiltà (Lc 18,9-14), riconciliazione con gli altri (Mt 6,145), giustizia (1Pt 3,12). L’«adorazione» è più che la preghiera: è la reazione di tutto l’uomo di fronte a chi gli è sommamente superiore. Essa non consiste primieramente nelle parole, ma si rende manifesta nell’atteggiamento totale dell’uomo che si sente dominato (cfr. Ap 1,17).
Santo del giorno: 4 Aprile – Sant’Isidoro di Siviglia, Vescovo e dottore della Chiesa: Ultimo dei Padri latini, Isidoro di Siviglia (560-636) fu molto letto nel Medioevo, soprattutto per le sue «Etimologie», un’utile “som-ma” della scienza antica. Fu però soprattutto un vescovo zelante preoccupato della maturazione culturale e morale del clero spagnolo. Per questo motivo fondò un collegio ecclesiastico, prototipo dei futuri seminari, dedicando molto spazio della sua laboriosa giornata all’istruzione dei candidati al sacerdozio. Dei suoi fratelli due furono vescovi e santi, Fulgenzio e Leandro, che fece da tutore a Isidoro, e una sorella, Fiorentina, fu religiosa e santa. Successe a Leandro nel governo episcopale della diocesi di Siviglia. Presiedette l’importante quarto concilio di Toledo (nel 633). Sapienza, mai disgiunta da profonda umiltà e carità, gli hanno meritato il titolo di «doctor egregius» e l’aureola di santo.
Preghiamo: O Padre, che ci hai dato la grazia di purificarci con la penitenza e di santificarci con le opere di carità fraterna, fa’ che camminiamo fedelmente nella via dei tuoi precetti, per giungere rinnovati alle feste pasquali. Per il nostro Signore Gesù Cristo…