Dal libro di Giosuè (5,9a.10-12) – Il popolo di Dio, entrato nella ter–ra promessa, celebra la Pasqua: «Ho allontanato da voi l’infamia dell’E-gitto»: poiché questo testo va compreso alla luce dell’ordine divino di circoncidere gli Israeliti (cfr. Gs 5,2), l’«infamia» consisteva nell’es-sere non circoncisi. La circoncisione fu imposta ad Abramo dal Signore come segno dell’alleanza che Egli concludeva con il suo popolo (cfr. Gen 17,9-27). Osservata dai patriarchi (cfr. Gen 31,13-24) e ri-presa dopo l’entrata nella Terra promessa, acquistò tutta la sua importanza solo a partire dall’esilio (cfr. 1Mac 1,60ss; 2Mac 6,10). La Pasqua, un’antica festa celebrata dai pastori durante la transumanza, nel libro dell’Esodo viene messa in relazione con la decima piaga, la morte dei primogeniti egiziani, e l’uscita dall’Egitto. Memoriale della liberazione dalla schiavitù egiziana, la Pasqua ebraica, nel Nuovo Testamento, da Gesù viene insignita di un nuovo e profondo significato: la liberazione dal peccato e dalla morte.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (5,17-21) – Dio ci ha riconciliati con sé mediante Cristo: Essere «creatura nuova» è un dono del tutto gratuito «che viene da Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo». Con il dono della sua vita, Gesù libera l’uomo dal-la morte e dal peccato, rendendolo «creatura nuova». In virtù del sacrificio di Cristo e del dono dello Spirito Santo, gli uomini non sono più schiavi, ma figli ed «eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo» (Rm 8,17).
Dal Vangelo secondo Luca (15,1-3.11-32) – Questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita: Luca, con le parabole della pecora e della dramma perdute e ritrovate e del figlio prodigo, vuole annunciare ai suoi lettori la misericordia di Dio per i peccatori: tre parabole «nelle quali Gesù descrive con vivezza l’infinita e paterna misericordia di Dio, nonché la sua gioia per la conversione del peccatore. Il Vangelo insegna che nessun uomo viene escluso dal perdono, e che i peccatori possono diventare figli diletti di Dio per mezzo del pentimento e della conversione. E tanto fortemente Dio desidera la conversione dei peccatori, che tutte e tre le parabole terminano con parole che esprimono, a mo’ di ritornello, la grande gioia che vi sarà in cielo per ogni peccatore pentito» (La Bibbia di Navarra).
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». Ed egli disse loro questa parabola: «Un uomo aveva due figli. Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. Si alzò e tornò da suo padre. Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa. Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Approfondimento
Era Dio infatti che riconciliava a sé il mondo in Cristo… – R. Canali (Riconciliazione in Schede Bibliche Pastorali – EDB): L’iniziati-va della riconciliazione è esclusivamente di Dio (2Cor 5,18-20). Ha origine nella sua volontà di salvezza. L’esecutore di questo piano di riconciliazione è Cristo (Col 1,20-22; Ef 2,13-22), il quale riconcilia con Dio noi, la chiesa (Rm 5,10-11), il «kosmos»=l’umanità (Rm 11,15; 2Cor 5,19-20). L’uomo è oggetto della riconciliazione, il riconciliato.
L’uomo non riconciliato è soggetto all’ira di Dio (Rm 11,28), avverso a lui, «nemico».
L’inimicizia si manifesta soprattutto nella disobbedienza (Rm 8,7), che consiste nel vivere per se stessi (2Cor 5,15). In questa situazione l’uomo è legato a un «orgoglioso egocentrismo» (Buchesel), per cui non è capace di amare (Rm 8,7) e non è gradito a Dio (Rm 8,8). Nel piano divino, la riconciliazione è operata dal Servo che si carica del nostro peccato (Is 53,4.5.6; 66,12). Cristo ci riconcilia nella sua morte (Rm 5,10; 1Cor 15,3). Essa è l’espressione massima dell’agape divina nei nostri confronti, ed è pure un’espiazione sovrabbondante del nostro peccato. Cristo si è assunto il peccato, perché noi diventassimo giustizia di Dio (1Pt 2,21-24). La croce è atto di giustizia (2Cor 5,20-21.14), compiuto da Cristo. Chi è unito a Cristo nella fede e nel battesimo partecipa alla sua stessa giustizia.
Riconciliazione e giustificazione quindi si identificano. Cristo ha condannato il peccato nella sua carne; il riscatto operato sulla croce (Gal 4,5; 3,13) è stato riconciliazione per noi (2Cor 5,18 ss.; Col 1,21).
La riconciliazione non poté essere operata dalla legge, perché questa non poteva impedire al peccato di regnare nella carne. Il suo compito era di conferire luce alla «nùs»; non poteva invece conferire forza interiore di liberazione. Dio ha realizzato nella persona del Figlio l’impossibile (Rm 8,1.3).
La legge ha finito il suo ruolo (2Cor 3,11.13.14; Rm 7,6). Nell’e-conomia salvifica, la croce congiunge e discrimina le due tappe del piano divino, l’economia della legge e quella della fede (Rm 8,1-4). La misericordia divina ha disposto (Lc 24,25 ss.; At 13,29) che la croce fosse il complemento e il superamento dell’antica disposizione e il vincolo che unisce i due regimi (Benoit). La croce è l’ultimo atto di una esistenza vissuta nella obbedienza alla volontà del Padre (Mt 16,21; Fil 2,1-8), nel servizio e nell’amore, nell’essere per gli altri. Il contrario di un vivere per se stessi. La croce è il segno della morte al mondo e a se stessi. La croce è liberazione e esistenza nuova, preludio di risurrezione e di vita nello Spirito.
Commento al Vangelo
Un uomo aveva due figli – La parabola alla luce del v. 2 (I farisei e gli scribi mormoravano…), si pone in un contesto polemico: Gesù se ne serve per annunciare la misericordia divina, ma anche per difendere il suo comportamento. Ai farisei che lo rimproverano di intrattenersi con i pubblicani, uomini e donne ritenuti peccatori pubblici, Gesù narra tre parabole (la dracma e la pecora perdute e ritrovate, il figlio prodigo) per suggerire che Egli, il Figlio, si comporta nei confronti dei peccatori così come si comporta Dio, il Padre.
Che il giovane chieda e ottenga l’eredità è un fatto insolito, ma tenendo conto della finalità della parabola la richiesta serve a porre l’accento sul peccato del giovane che è paurosamente crescente: alla istanza insana si aggiunge l’allontanamento dalla casa paterna, poi la dissipazione dell’eredità, quindi la fame e il degradante lavoro di porcaio.
In questo mestiere, forse, sta celato il vero peccato del giovane avvalorato dal suo grido rivolto al Cielo: «Padre, ho peccato contro di te», e dal fatto che la parabola è tesa a difendere la benevolenza di Gesù nei confronti dei pubblicani, ritenuti impuri.
La Legge faceva distinzione tra animali puri e animali impuri: «Ogni mammifero puro doveva avere l’unghia spaccata ed essere ruminante. Quelli che presentavano solo l’una o l’altra caratteristica erano esclusi, e di essi vengono nominati in modo specifico tre: la lepre, l’irace e il maiale» (George Cansdale). Forse Luca annotando il fatto che il giovane si era adattato per fame a fare il mandriano di porci, cioè di animali impuri, voleva dare al lettore un messaggio molto più forte: quello dell’apostasia del giovane, un peccato molto più grave dello sperpero dell’eredità.
Tormentato dalla fame, il giovane rientra in se stesso e toccando con mano il fango in cui era caduto si decide di ritornare tra le braccia del Padre. Qui l’asse della parabola si sposta facendo della parabola del «figlio prodigo» un’icona e una manifestazione piena dell’a-more misericordioso del Padre. Ecco perché essa potrebbe essere definita come la «parabola del Padre misericordioso».
In verità a rileggere la parabola il protagonista non è il figlio che se ne va di casa e poi torna abbracciato dal Padre e nemméno l’altro figlio, quello maggiore, che non sa accettare il comportamento del Padre, ma lui, il Padre, con il suo amore fatto di trepidante attesa per le sorti del figlio scapestrato.
Soltanto «il cuore di Cristo, che conosce le profondità dell’amore di suo Padre, ha potuto rivelarci l’abisso della sua misericordia in una maniera così piena di semplicità e di bellezza» (CCC 1439).
Quindi, l’intento di Cristo, nel raccontare questa parabola, oltre a quello apologetico, è quello di rivelare il cuore e il vero volto del Padre. A tradire questa intenzione è quel sottolineare, con vibranti sfumature, la commozione di Dio, un sentimento che svela il mistero della sua misericordia e della sua bontà: «Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò».
Riferito a Dio, «il verbo “commuoversi” è molto forte. Questo verbo, infatti, indica il sentimento e l’amore intenso della madre: nel suo significato originario [in greco: splanchìnzomai] esso indica anche il seno o il grembo materno, là dove il figlio prende corpo dal corpo della madre. L’uso di questo verbo spiega perché nella parabola di Luca, manchi la figura della madre. Dio è tutto e nella descrizione che di lui fa la Bibbia attraverso la figura del Padre esaurisce tutto il mondo dell’uomo e tutti gli atteggiamenti che lo qualificano come padre-madre, uomo-donna» (Don Primo Gironi).
Dio è amore infinito, sempre presente; sempre pronto a non lasciare nulla di intentato lì dove c’è un figlio da amare e da perdonare, da custodire e da cercare. Un amore che sa attendere pazientemente anche chi si ostina a non capire l’amore e le sue esigenze (cfr. 2Pt 3,9).
Anche lui, il «figlio maggiore», ritornerà e si convincerà ad entrare in casa, e anche per lui si ammazzerà il vitello grasso e si farà festa. Una speranza che si fa certezza attraverso la Parola di Dio: «l’in-durimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato […], perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,25-29).
Non c’è tanto da fantasticare, poi, sulla veste, sull’anello e sui sandali che il padre dona al figlio ritrovato. La veste migliore è il segno che il Padre ha perdonato i peccati del figlio: ne ha fatto un fagotto e li ha gettati «in fondo al mare» (Mi 7,19); l’anello e i sandali, che non indossavano gli schiavi, sono il segno inequivocabile della ricuperata figliolanza, della libertà di Figlio (cfr. Gc 2,2).
La parabola è un chiaro monito per i farisei di tutti i tempi: invece di scandalizzarsi di Dio che ama teneramente anche i peccatori, sarebbe opportuno scandalizzarsi delle proprie grettezze e dei propri pregiudizi.
Riflessione
In Cristo Gesù la «circoncisione non conta nulla» (1Cor 7,19) – Giosuè si affretta a circoncidere il popolo perché possa celebrare la Pasqua, secondo le prescrizioni dettate da Dio a Mosè. Poiché il peccato e il non essere circonciso alienavano il popolo dall’Alleanza, per i Giudei erano come due spaventose disgrazie assài temute.
Per Israele la circoncisione era molto più che un «segno nella carne»; essa, e solo essa, significava e operava l’inclusione nella comunità dell’alleanza, così come solo la santità permetteva il permanere in essa (cfr. Lv 19,2). La circoncisione, poi, togliendo il popolo eletto dalla condizione di paganesimo lo separava dai pagani, lo costituiva come «regno di sacerdoti» (Es 19,6), lo iniziava al culto di Dio e lo rendeva idoneo alla celebrazione della Pasqua (cfr. Es 12,48).
Praticamente, la circoncisione, affrancando l’uomo lo poneva al servizio e alla dipendenza di Dio, in quanto eliminava le barriere che impedivano l’incontro con Dio. Era insomma «una riabilitazione religiosa e sociale nell’ambito del popolo di Dio» (Vincenzo Raffa), ma anche un segno altamente discriminatorio.
Ora, in Cristo, questo segno è per sempre decaduto: se si ritornasse alla circoncisione, «si rinuncerebbe alla libertà che dà la fede in Cristo (cfr. Rm 6,15). In questo la legge e la fede non sono più conciliabili (cfr. Gal 5,2-6)» (Bibbia di Gerusalemme). Paolo, scrivendo agli Efesini e alludendo al muro che separava il cortile dei giudei da quello dei pagani nel tempio di Gerusalemme, proclama che in Cristo sono state definitivamente abbattute tutte le barriere: una totale demolizione avvenuta nel corpo di carne di Gesù, «per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce, distruggendo in se stesso l’inimicizia» (Ef 2,14-16).
Nella nuova economia salvifica inaugurata dal Figlio di Dio, solo la fede permette di fruire dei doni di grazia donatici in Cristo Gesù (cfr. Gv 1,16; Gal 3,11): solo la grazia è il principio della nuova vita, che, per mezzo dell’azione dello Spirito Santo, viene vivificata, sostenuta e animata dalla speranza e dalla carità (cfr. Rm 5,5; Gal 5,5-6; 6,13-14; 1Cor 13,13). Ed è l’esercizio della carità che manifesta l’ap-partenenza al nuovo popolo di Dio, e sulla carità saremo giudicati alla «sera della vita» (San Giovanni della Croce).
Ora, nel mistero della nuova Pasqua celebrata nella carne crocifissa del Figlio di Dio, «non è la circoncisione che conta, né la non circoncisione, ma l’essere nuova creatura» (Gal 6,15). L’unica cosa che conta è essere «creatura nuova» [cfr. 2Cor 5,17], «nata dal costato di Cristo crocifisso, per cui solo i “crocifissi” come Paolo possono far parte del regno della redenzione [cfr. Gal 5,24]. In tal maniera e seguendo questa via della croce, essi diventano il vero “Israele” [cfr. Gal 3,29; Rm 9, 6-8], in opposizione all’Israele “secondo la carne” [1Cor 10,18], e saranno oggetto di “pace” e di “misericordia” da parte di Dio» (S. Cipriani).
Senza essere circoncisi, gli uomini possono celebrare la nuova Pasqua perché appartengono a Cristo: il segno concreto di questa appartenenza è la carne crocifissa di Gesù, un segno che dà la possibilità a tutti gli uomini di buona volontà di mangiare i frutti della nuova terra promessa.
La pagina dei Padri
Il figlio prodigo – Sant’Ambrogio: “Padre ho peccato contro il cielo e dinanzi a te” (Lc 15,18). Ecco la prima confessione della colpa, rivolta al creatore della natura, all’arbitro della misericordia, al giudice del peccato. Sebbene egli sappia tutto, Dio tuttavia attende dalla tua voce la confessione, infatti “è con la bocca che si fa la confessione per la salvezza” (Rm 10,10).
Solleva il peso della propria colpa colui che spontaneamente se ne carica: taglia corto all’animosità dell’accusa chi previene l’accusatore confessando: infatti “il giusto nell’esordio del suo discorso, è accusatore di se stesso” (Pr 18,17).
E d’altra parte sarebbe vano tentar di dissimulare qualcosa a colui che su nessuna cosa si può trarre in inganno; non rischi niente, a denunziare ciò che sai esser già noto.
Meglio è confessare, in modo che per te intervenga Cristo, che noi abbiamo come avvocato presso il Padre (cfr. 1Gv 2,1), per te preghi la Chiesa, e il popolo infine per te pianga. E non aver timore di ottenere. L’avvocato ti garantisce il perdono, il patrono ti promette la grazia, il difensore ti assicura la riconciliazione con l’amore paterno.
Credi dunque, perché il Signore è verità, e sii tranquillo, perché il Signore è potenza. Egli ha un fondamento per intervenire a tuo favore; altrimenti sarebbe morto inutilmente per te.