30 Marzo 2019 – Sabato, III di Quaresima – (Os 6,1-6; Sal 50[51]; Lc 18,9-14) – I Lettura: Il profeta Osèa “immagina una liturgia di penitenza, la cui terminologia è forse ripresa da qualche cerimonia espiatoria [1Re 8,31-53; Ger 3,21-25; Gl 1-2; Sal 85]: il popolo, spaventato dall’annuncio del castigo e dell’abbandono del Signo-re (Os 5,14-15), è esortato a ritornare a lui [vv. 1-3]. Ma questo ritorno è effimero, senza conversione interna [vv. 4-6]” (Bibbia di Gerusalemme). Vangelo: La parabola presenta due tipi umani opposti: i farisei, scrupolosi osservanti della Legge, e i pubblicani schedati come peccatori pubblici, gente senza salvezza. La preghiera del fariseo non è accetta a Dio perché sgorga da un cuore infettato dall’orgoglio, mentre il pubblicano è ascoltato e giustificato perché, riconoscendo la propria indegnità, la sua preghiera erompe da un cuore contrito e umiliato. Il valore della preghiera non dipende dalla sua prolissità, ma dalle disposizioni del cuore. La preghiera spoglia di arroganza e di sedicenti meriti penetra le nubi e arriva fino al cuore di Dio.
Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza del fariseo – Dal Vangelo secondo Luca: In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».
Riflessione: «Dio resiste ai superbi, agli umili invece dà la sua grazia» (Gc 4,6). Sta qui tutta l’importanza dell’umiltà; sbarazza il cuore umano dall’orgoglio, dall’amor proprio e lo apre a Dio, al suo amore, alla sua grazia. La santità consiste nell’amore perché solo l’amore può unire l’uomo a Dio; l’umiltà però ne è il fondamento perché prepara il terreno alla carità, ne scava gli spazi. L’umiltà sta all’amore come le fondamenta stanno all’edifi-cio. Quanto più le fondamenta sono profonde, ben piantate, tanto più la casa può elevarsi in altezza senza pericolo di crollare. «L’umiltà – dice S. Teresa d’Avila – è il fondamento dell’edificio della vita spirituale, e mai il Signore lo eleverà di molto, se l’umiltà non sarà ben salda. E ciò nel vostro stesso interesse, per evitare che tutto cada» (Castello interiore, VII,4). A misura che l’umiltà vuota l’anima dalle vane e orgogliose pretese dell’io, fa posto a Dio. E quando una persona spirituale si sarà ridotta al niente, avrà cioè raggiunto il massimo dell’umiltà, allora si compirà l’unione spirituale fra l’anima e Dio, unione che costituisce il più grande e alto stato a cui si possa pervenire in questa vita. Ne segue che quanto più alto è l’ideale di santità e di unione con Dio cui l’uomo aspira, tanto più deve scendere, o meglio, deve scavare in se stesso l’abisso dell’umiltà che attira l’abisso della misericordia infinita. Occorre dunque umiliarsi «sotto la potente, mano di Dio» (1Pt 5,6), riconoscere il proprio nulla perché si stenda su di lui la potenza di Dio: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo… Infatti, quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9.10).
La Parola di Dio commentata dal Magistero della Chiesa: Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocàusti – Benedetto XVI (Angelus, 8 Giugno 2008): Al centro della liturgia della Parola di questa Domenica sta un’espressione del profeta Osea che Gesù riprende nel Vangelo: “Voglio l’amore e non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti” (Os 6,6). Si tratta di una parola-chiave, una di quelle che ci introducono nel cuore della Sacra Scrittura. Il contesto, in cui Gesù la fa propria, è la vocazione di Matteo, di professione “pubblicano”, vale a dire esattore delle tasse per conto dell’autorità imperiale romana: per ciò stesso, egli veniva considerato dai Giudei un pubblico peccatore. Chiamatolo proprio mentre era seduto al banco delle imposte – illustra bene questa scena un celeberrimo dipinto del Caravaggio -, Gesù si recò a casa di lui con i discepoli e si pose a mensa insieme con altri pubblicani. Ai farisei scandalizzati rispose: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati… Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9,12-13). L’evangelista Matteo, sempre attento al legame tra l’Antico e il Nuovo Testamento, a questo punto pone sulle labbra di Gesù la profezia di Osea: “Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio”. È tale l’importanza di questa espressione del profeta che il Signore la cita nuovamente in un altro contesto, a proposito dell’osservanza del sabato (cfr. Mt 12,1-8). Anche in questo caso Egli si assume la responsabilità dell’interpretazione del precetto, rivelandosi quale “Signore” delle stesse istituzioni legali. Rivolto ai farisei aggiunge: “Se aveste compreso che cosa significa: Misericordia io voglio e non sacrificio, non avreste condannato persone senza colpa” (Mt 12,7). Dunque, in questo oracolo di Osea Gesù, Verbo fatto uomo, si è, per così dire, “ritrovato” pienamente; l’ha fatto proprio con tutto il suo cuore e l’ha realizzato con il suo comportamento, a costo persino di urtare la suscettibilità dei capi del suo popolo.
Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità – Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 8 Maggio 2002): Nella confessione del Miserere c’è una sottolineatura particolarmente marcata: il peccato non è colto solo nella sua dimensione personale e “psicologica”, ma è delineato soprattutto nella sua qualità teologica. “Contro di te, contro te solo ho peccato” (Sal 50,6), esclama il peccatore, a cui la tradizione ha dato il volto di Davide, consapevole del suo adulterio con Betsabea, e della denuncia del profeta Natan contro questo crimine e quello dell’uccisione del marito di lei, Uria (cfr. v. 2; 2Sam 11-12). Il peccato non è, quindi, una mera questione psicologica o sociale, ma è un evento che intacca la relazione con Dio, violando la sua legge, rifiutando il suo progetto nella storia, scardinando la scala dei valori, “cambiando le tenebre in luce e la luce in tenebre”, cioè “chiamando bene il male e male il bene” (cfr. Is 5,20). Prima che un’eventuale ingiuria contro l’uomo, il peccato è innanzitutto tradimento di Dio. Emblematiche sono le parole che il figlio prodigo di beni pronunzia davanti a suo padre prodigo d’amore: “Padre, ho peccato contro il cielo – cioè contro Dio – e contro di te!” (Lc 15,21).
La Parola di Dio commentata dai Padri della Chiesa: Dio non preferisce il peccatore a chi non ha peccato: «Dato che egli aggiunge: “Perché dunque questa preferenza accordata ai peccatori?” e cita opinioni analoghe, per rispondere dirò: il peccatore non è assolutamente preferito a chi non ha peccato. Capita che un peccatore che ha preso coscienza della sua colpa, e per tal motivo progredisce sulla via della conversione umiliandosi per i suoi peccati, venga preferito ad un altro che si riguarda come meno peccatore, e che, lungi dal credersi peccatore, si gonfia di orgoglio per certe qualità superiori che crede di possedere. È quel che rivela a chi legge lealmente il vangelo la parabola del pubblicano che dice: “Abbi pietà di me peccatore”, mentre il fariseo, con sufficienza perversa, si gloriava dicendo: “Ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, rapaci, ingiusti, adulteri, e neppure come quel pubblicano”. Gesù, infatti, conclude il suo discorso sui due uomini: “Il pubblicano scese a casa sua giustificato… poiché chi si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato” [Lc 18,13; 1,14]» (Origene).
Silenzio / Preghiera / La tua traccia: Essere umili – Don Luigi Maria Epicoco: La malattia più brutta che può prendere un credente è quella in cui ci si ammala di superiorità. È una malattia che nasce dall’idea sbagliata che basta stare alle regole per essere migliori degli altri. Che basta pregare per essere migliori degli altri. Che basta essere religiosi per essere migliori degli altri. Quando tu ti senti migliore di qualcun altro quella è la prova che la tua fede in te ha fallito. Per questo la storia raccontata da Gesù nel Vangelo di oggi è molto significativa: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano… Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”». Essere credenti significa avere costantemente la consapevolezza della nostra umanità non per frustrarci e vivere da complessati ma per non cadere mai nella trappola di credere che per essere credenti bisogna essere i primi della classe. Il vero credente non lo si misura dall’assenza di peccato ma dalla presenza dell’umiltà. Infatti i peccati li puoi confessare e liberartene, ma quando uno è pieno di se stesso come può fare a svuotarsi? Solo sbattendo la testa. Certe cadute ci fanno estremamente bene. Delle volte passare attraverso l’umiliazione delle nostre cadute, apprendiamo la necessità e la preziosità dell’umiltà. Non è Dio a umiliarci ma è il nostro orgoglio e la nostra superbia che ci fanno inciampare. Ma da simili cadute Dio sa trarre lezioni immense di come si dovrebbe vivere e relazionarsi. Una preghiera che dice: “Grazie perché non sono brutto e cattivo come quello”, non implica devozione e zelo ma narcisismo. E si rimane molto male quando ci si accorge che Dio ha una predilezione immensa per i “brutti e cattivi”. A loro può migliorarli, ai presunti belli e buoni no, perché non si lasciano toccare.
Santo del giorno: 30 Marzo – San Giovanni Climaco, Abate: “In greco, «climaco» significa «quello della scala». Così è soprannominato Giovanni, monaco e abate, perché ha scritto una famosissima guida spirituale in greco: «Klimax tou Paradeisou», ossia «Scala del Paradiso». Ma di lui abbiamo scarse notizie: incerte le date di nascita e di morte, sconosciuta la famiglia (sappiamo però di un fratello, Giorgio, anche lui monaco). Lo troviamo nella penisola del Sinai, monaco a vent’anni, tra molti altri, chi legato a un centro di vita comune, chi invece isolato in preghiera solitaria. Lui sperimenta entrambe le forme di vita, e poi si fissa nel monastero di Raithu, nel sud-ovest della regione. Ma verso i 60 anni lo chiamano a guidare come abate un altro grande e più famoso cenobio: quello del Monte Sinai. E lì porta a termine la «Scala», che diventerà popolarissima. Sarebbe morto nel 649” (Avvenire).
Preghiamo: O Dio, nostro Padre, che nella celebrazione della Quaresima ci fai pregustare la gioia della Pasqua, donaci di approfondire e vivere i misteri della redenzione per godere la pienezza dei suoi frutti. Per il…