Liturgia, marzo

III Domenica di Quaresima (C) 24 Marzo 2019

Dal libro dell’Èsodo (3,1-8a.13-15) – Io-Sono mi ha mandato a voi: La narrazione della vocazione di Mosè è vergata con elementi caratteristici e costanti in simili racconti biblici. Alla chiamata di Dio il vocato protesta la propria indegnità e le proprie perplessità che vengono superate da un segno e dalla promessa della protezione divina. Il fuoco che brucia senza consumarsi è simbolo fondamentale delle teofanie. Dio rivela a Mosè il suo nome usando il verbo essere che in ebraico è verbo attivo, cioè non indica uno stato, ma un’attività. In tal senso Dio si rivela a Mosè come Colui che agisce e vale a differenza degli idoli muti dei pagani che sono nulla, perché non contano e non valgono niente.

Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (10,1-6.10-12) – La vita del popolo con Mosè nel deserto è stata scritta per nostro ammonimento: Paolo invita i cristiani di Corinto a leggere con attenzione la storia biblica del popolo d’Israele «per coglierne il messaggio sempre vivo e sempre attuale per la comunità cristiana. La 1Cor è tutta percorsa dal forte e sferzante richiamo di Paolo a mantenersi fedeli a Cristo e al Vangelo. Per avvalorare questo richiamo, Paolo si rifà alla storia e all’esperienza del popolo biblico: anche quella storia e quel-l’esperienza sono macchiate dall’infedeltà e dal peccato dell’uomo. La lezione biblica deve mettere in guardia anche i cristiani di Corinto [e di ogni tempo] che sfoderano una sprezzante sufficienza: “Chi crede di stare in piedi, guardi di non cadere”» ( Don Primo Gironi).

Dal Vangelo secondo Luca (13,1-9) – Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo: Non sempre è da cercare un nesso diretto tra colpa e morte, tra peccato e infortunio, questo è l’insegnamento di Gesù. Tali fatti di violenza sono invece chiari appelli alla conversione, perché ciò che conta è non andare incontro ad una morte ancora più terribile, quella che porta all’eterna separazione da Dio. La parabola del fico sterile è un chiaro riferimento alla pazienza di Dio, ma potrebbe alludere al ritardo del giudizio finale di Dio e all’importan-za di prepararvisi.

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Tàglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».

Approfondimento

      Retribuzione collettiva e temporale – Giuseppe Manni (Retribu-zione in Schede Bibliche, EDB): Nella società israelitica, il concetto di responsabilità individuale si è affermato solo poco a poco.

      Questa società, ancora primitiva, era caratterizzata da una forte solidarietà fra i suoi membri, derivata dal legame strettissimo alla stessa tribù, allo stesso popolo e alla stessa terra. In questo contesto, l’esistenza dell’individuo è inseparabile dal destino degli altri e la legge non puniva solo il singolo colpevole, ma tutto il gruppo e specialmente la sua discendenza. In Gs 7,24-26, quando Acham viola una legge della «guerra santa», viene ucciso lui assieme ai suoi figli.

  La giustizia di Iahvé si adatta a questa sensibilità ancora tanto primitiva del suo popolo: «Io, Iahvé, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fin nella terza e nella quarta generazione…» (Es 20,5).

  Nel deserto, la rivolta di alcuni membri delle tribù di Levi e Ruben causa la morte «individuale» non solo dei colpevoli, ma anche delle loro famiglie, in una punizione divina chiaramente collettiva (Nm 16,32). Il peccato di Saul, che contravviene a un patto sacro con i Gabaoniti, attira una terribile carestia su tutto il popolo; poi quando viene scoperto il vero colpevole, vengono crocefissi sette figli del re (2Sam 21,1-14).

  Così il peccato di orgoglio di David che ha ordinato un censimento, ricade su tutto il suo popolo con tre giorni di peste (2Sam 24).

  Le catastrofi politiche del 722 e del 587 (caduta di Samaria e di Gerusalemme) sono interpretate dai profeti come la logica conseguenza dell’iniquità dei re, e in genere per il peccato dei padri.

  Inoltre, la retribuzione che Iahvé dà al suo popolo, è concepita come temporale; si chiude cioè nell’arco della vita terrena. Dio infatti punisce o premia con cose facilmente controllabili: carestia, sterilità, sconfitta, oppure abbondanza nei raccolti, fecondità della sposa, potenza militare, rispetto e amicizia dei vicini.

  Questa concezione è strettamente legata al concetto di «aldilà» che gli ebrei per lungo tempo hanno avuto.

  Essi, come gli altri semiti dell’epoca, ammettevano una sopravvivenza della persona umana, ma nello sceol. Lo sceol è un luogo sotterraneo, abitato solo da ombre, dove si diventa «rephaim» («ombre»); è un luogo di silenzio e di tenebre: (Sal 88,13; Gb 7,9s; 10,21.22; Eccle 9,5s); ci sono abissi profondissimi (Is 14,15). È la terra senza ritorno, un’esistenza senza gioie; l’uomo si riduce a un’ombra.

  Il pio ebreo pensa con orrore a quel luogo dove non potrà più lodare il suo Dio: «Per i morti opererai tu prodigi? – Sorgeranno per lodarti le ombre? – Si parlerà della tua grazia nella tomba, – della tua fedeltà nel luogo della putrefazione?» (Sal 88,11s.).

  La sopravvivenza nello sceol non è dunque diversa per l’uomo giusto o per il peccatore. Lo sceol biblico non è certo un luogo dove possa venire la retribuzione di Dio.

  Gli israeliti cercavano perciò in questa vita la punizione o la ricompensa del male o del bene che essi facevano, cosicché il bene o il male «fisico» che incontravano nella loro esistenza era interpretato come un segno indiscutibile della propria «giustizia» o del proprio peccato.

Commento al Vangelo

  Se non vi convertite… – «In quel momento arrivarono alcuni a riferirgli il fatto di quei galilei che Pilato aveva fatto uccidere…». Nella Palestina del I secolo, i mali, le disgrazie o le malattie erano in genere considerati come la punizione di una colpa.

  Si era convinti che Dio retribuiva già da questa vita gli uomini secondo la logica quantitativa del merito: i buoni con ogni bene materiale e spirituale e i peccatori con il dolore, la malattia o la povertà.

  Per gli anonimi delatori, divorati dal solito vizio di sentirsi giusti, quindi, non v’era altra spiegazione da dare a quella crudele carneficina: i morti ammazzati non potevano non essere che peccatori.

  Interrogato sulla giustezza di questo ragionare, Gesù lo contraddice apertamente.

  La solita mattanza ad opera delle legioni romane non manifestava il giudizio di Dio su quei poveri malcapitati caduti sotto il ferro romano: casomai, il sangue che aveva imbrattato il tempio di Gerusalemme sconsacrandolo, manifestava la crudeltà del governatore della Giudea; il suo perverso giuoco che consisteva nel dilettevole provocare i giudei per poi, alla loro reazione esasperata, ammazzarli. Un divertimento squisitamente romano! Così la torre di Sìloe, rovinando su dei poveri operai non manifestava le loro colpe nascoste.

  D’altro canto, Gesù, con la sua risposta, non vuole affermare che «le vittime sono innocenti, ma che allo stesso modo sono colpevoli i sopravvissuti, tutti gli altri abitanti della Galilea e di Gerusalemme, la cui vita continua tranquillamente. Il suo intento, infatti, non è quello di dare una risposta teologica al problema del male, bensì di invitare con insistenza, ancora una volta, alla conversione. Gesù vuole ottenere che i suoi interlocutori cambino la direzione della loro vita» (H. Cousin).

  La risposta di Gesù non ammette sconti: a voi, che «vi ritenete giusti davanti agli uomini» (Lc 16,15), io vi dico: «se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo» (Lc13,3).

  È il peccato a trascinare l’uomo nell’abisso della morte: l’odio e l’arroganza di appartenere a una razza superiore hanno travolto Ponzio Pilato facendone un animale assetato di sangue. Probabilmente, la miseria e la fame hanno spinto gli operai ad accettare un lavoro poco sicuro ingrassando datori di lavoro senza scrupoli. È qui che bisogna indirizzare i propri sforzi per avviare un serio cammino di conversione: tagliare alla radice tutto quello che può produrre morte, sofferenza, lutti, lacrime. Solo questa conversione è gradita a Dio: «sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo…, dividere il pane con l’affamato, introdurre in casa i miseri, senza tetto, vestire uno che vedi nudo» (Is 58,5-7).

  Non a caso Gesù risponde al bislacco ragionamento dei giudei con la parabola del fico sterile. In essa vi è un profondo insegnamento: invece di stare a giudicare insipientemente è bene volgere lo sgu-ardo su Dio e imitare la sua pazienza e la sua misericordia. Non si è giusti quando si tranciano giudizi a destra e a manca: si è giusti quando nel quotidiano si imita Dio: nella pazienza, nell’amore fraterno, nella santità, nel perdono.

  Con l’incarnazione di Dio le cose mutano sostanzialmente. Per l’insegnamento neotestamentario la retribuzione sarà palese soltanto alla fine della vita dell’uomo o della storia quando avverrà il giudizio e solo allora gli uomini saranno giudicati secondo le loro opere e consequenzialmente premiati o condannati. Questo nuovo modo di ragionare ha il pregio di inserire la sofferenza o la malattia in un disegno più vasto della provvidenza divina e l’uomo empio in un tempo di conversione e di ritorno nella casa del Padre.

  Il male o il bene, la disgrazia o la fortuna non sono più segno di benevolenza o maledizioni divine, anzi, la sofferenza, il dolore, e la stessa morte, in questa vita sono una causa e una garanzia della gloria futura: «Io ritengo, infatti, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi» (Rm 8,18; cfr. 1Pt 4,12-13).

Riflessione

  Un Dio esigente, ma paziente – Il pressante invito di Gesù alla conversione mette in evidenza un dato sconcertante: l’uomo vive con il Padre celeste un rapporto distorto. Urge cambiare modo di vivere, modo di pensare, di relazionarsi con se stessi, con gli uomini e con Dio; occorre che l’uomo si riconosca creatura bisognosa di tutto; deve avere il coraggio di riconoscersi per ciò che realmente è: peccatore, limitato, povero davanti a Dio, che è bontà, perdono, giustizia: un «Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione […], ma usa misericordia fino a mille generazioni» (Dt 5,9-10).

  Il cammino di conversione non deve risultare un’operazione di maquillage o una riverniciatura, ma deve portare l’uomo, come risultato ultimo e definitivo del percorso, a diventare in Cristo una creatura nuova (cfr. 1Cor 5,17; Gal 6,15). Un uomo nuovo, diverso, veramente mutato, vivificato dalla linfa di una vita nuova (cfr. Rm 6,4) fatta di giustizia e di santità (cfr. Ef 2,10; Col 3,10).

  L’urgenza della conversione non si sposa con il luogo comune fuorviante che induce molti a pensare a un Dio buono a tutti i costi, un Dio Babbo Natale. La carne del Figlio straziata dai chiodi, dai flagelli e dalla corona di spine, è un linguaggio che denuncia il modo di amministrare la giustizia da parte del Padre: per riconciliarsi con l’uomo «non ha risparmiato il proprio Figlio» (Rm 8,32); colpendo il Figlio ha perdonato all’uomo, perché il debito contratto con il peccato andava saldato in ogni modo.

  L’uomo non può illudersi, alla fine della sua vita raccoglierà quello che avrà seminato: «Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna» (Gal 6,7-8).

  Dal punto di vista teologico e spirituale «questa immagine aiuta a ben delineare i contorni dell’agire divino nei nostri confronti. Ci dobbiamo sentire avvolti, quasi “perseguitati”, dal fuoco del suo amore, che ci vuole diversi, a lui graditi, a lui simili; ci vuole riflesso nel mondo della sua santità, della sua giustizia. Le sue minacce non sono che il risvolto del suo amore che non vuole vedersi beffato [cfr. Gal 6,7]» (Giovanni Iammarone).

  Ma sarebbe un Vangelo a metà se alla giustizia divina non si aggiungesse la pazienza di Dio, la quale dona all’uomo nuove possibilità di risposta al suo amore. Dio è paziente perché è Amore (cfr. 1Gv 4,8.16) e perché non vuole che «alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9; cfr. Sap 11,23; 12,8).

  Però, non possiamo né dobbiamo abusare della pazienza di Dio; se il Signore è paziente, lo è per misericordia non per debolezza e al momento opportuno saprà chiedere conto di ogni operato (cfr. Lc 11,50-51; 12,48): «La bontà di Dio, infatti, ti conduce alla penitenza, non ad un maggior numero di peccati […]. Dio è buono? Ma è anche giusto giudice. Perdona i peccati? Ma rende anche a ciascuno secondo le sue opere: sorvola sulle iniquità e toglie le trasgressioni? Eppure le passa altresì in rassegna» (Giovanni Crisostomo).

  La misericordia e la pazienza di Dio interpellano la libertà dell’u-omo. Egli è una creatura libera, capace di scegliere: «Davanti agli uomini stanno la vita e la morte; a ognuno sarà dato ciò che a lui piacerà» (Sir 15,17; cfr. Sir 15,11-20; Gc 1,13-14). La grazia si sposa sempre con la libera decisione dell’uomo perché possa sortire il suo effetto. Diceva sant’Agostino: «Chi ti ha creato senza di te, non ti salva senza di te».

  La pazienza e la misericordia di Dio sono tese a stimolare l’uomo a superare il gioco dei rimandi; ma in ogni caso verrà, prima o dopo, il tempo in cui l’albero infruttuoso sarà tagliato (cfr. Lc 13,9). L’uomo se è libero è anche una creatura intelligente. Lo suggerisce l’apostolo Paolo ai cristiani di Corinto. Se il viaggio rovinoso d’Israele è stato ricordato nelle Scritture per loro ammonimento, intelligenza vuole che essi non ripetano gli errori del popolo eletto. E quello dell’Apo-stolo è un messaggio molto chiaro ai cristiani di tutti i tempi.

  Se Dio non ha risparmiato gli ebrei non risparmierà nemmeno i credenti che si comporteranno in maniera analoga. Per questi motivi l’invito di Cristo è urgente e indilazionabile, occorre quindi rispondere immediatamente e impegnarsi interamente. Un cristiano non vive dei suoi redditi, o degli interessi sui redditi, ma vive del suo capitale, impegnandolo fino in fondo.

La pagina dei Padri

  La pianta, che non rende e non fa rendere, occupa inutilmente il terreno – San Gregorio Magno: Con gran timore si deve ascoltare ciò che vien detto dell’albero che non fa frutto: “Taglialo; perché dovrebbe continuare ad occupare il terreno?” (Lc 13,7).

  Ognuno, a suo modo, se non fa opere buone, dal momento che occupa dello spazio nella vita presente, è un albero che occupa inutilmente il terreno, perché, nel posto ove sta lui, impedisce che ci si metta a lavorare un altro.

  Ma c’è di peggio, ed è che i potenti di questo mondo, se non producono nessun bene, non lo fanno fare neanche a coloro che dipendono da loro, perché il loro esempio agisce sui dipendenti come un’ombra stimolatrice di perversità.

  Al di sopra c’è un albero infruttuoso e sotto la terra rimane sterile.

Al di sopra s’infittisce l’ombra dell’albero infruttuoso e i raggi del sole non riescono a raggiungere la terra, perché quando i dipendenti di un padrone perverso vedono i suoi cattivi esempi, anch’essi, rimanendo privi della luce della verità, restano infruttuosi; soffocati dal-l’ombra non ricevono il calore del sole e restano freddi, senza il calore di Dio. Ma il pensiero di questo qualsivoglia potente non è più oggetto diretto delle cure di Dio.

  Dopo, infatti, ch’egli ha perduto se stesso, la domanda è soltanto perché debba far pressione anche sugli altri. Perciò il contadino si domanda: «Perché dovrebbe continuare ad occupare il terreno?».

  Occupa il terreno, chi crea difficoltà alle menti altrui, occupa il terreno, chi non produce buone opere nell’ufficio che tiene.

 

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