Dal libro del Siràcide (27,4-7) – Non lodare nessuno prima che abbia parlato: In questo brano il Siràcide ci dà un insegnamento. Chiun-que si affidi ad un uomo deve prima sentirne il pensiero che scaturi-sce dalla pienezza del suo cuore. Perché la parola è lo specchio di ciò che è custodito nel cuore, così come Gesù stesso insegnerà in futuro ai suoi discepoli: non c’è nulla che entrando nell’uomo possa render-lo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro.
Dal Salmo 91 (92) – È bello rendere grazie al Signore: “Al mattino: quando va tutto bene. Lungo la notte: quando tutto va male. Quando tutto va bene, riconosci la sua misericordia e quando tutto va male, riconosci la sua verità. Daniele confessava la verità di Dio di notte: Abbiamo peccato e abbiamo operato da malvagi e da empi… Gloria a te, Signore, e vergogna per noi! (9, 5 ss.). Se tu annunci la misericordia di Dio al mattino e la sua verità lungo la notte, tu lodi sempre Dio; sempre lo confessi e canti il suo nome” (Sant’Agostino).
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (15,54-58) – Ci ha dato vittoria per mezzo di Gesù Cristo: Il rapporto tra Dio e il popolo nell’Antico Testamento era generato, illuminato e guidato dalla Parola che insieme era salvezza e giudizio del Signore verso il suo Popolo. Con il compiersi dei tempi e la venuta del Messia Salvatore, è Lui, Gesù, che genera, illumina e guida il Popolo di Dio attraverso il suo sacrificio d’amore. Questa è la “vittoria” sul male e sulla morte che Dio ci dà “per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo”.
Dal Vangelo secondo Luca (6,39-45) – La bocca esprime ciò che dal cuore sovrabbonda: Chi non riconosce il suo bisogno della miseri-cordia di Dio, chi non riconosce quel che la misericordia di Dio gli ha perdonato, non è in grado di correggere gli altri, per renderli più fedeli a Dio. La correzione fraterna è praticabile solo da chi si ricono-sce figlio perdonato dal Padre misericordioso e quindi fratello tra fratelli.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli una parabola: «Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutti e due in un fosso? Un discepolo non è più del maestro; ma ognuno, che sia ben preparato, sarà come il suo maestro. Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? Come puoi dire al tuo fratello: “Fratello, lascia che tolga la pagliuzza che è nel tuo occhio”, mentre tu stesso non vedi la trave che è nel tuo occhio? Ipocrita! Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello. Non vi è albero buono che produca un frutto cattivo, né vi è d’altronde albero cattivo che produca un frutto buono. Ogni albero infatti si riconosce dal suo frutto: non si raccolgono fichi dagli spini, né si vendemmia uva da un rovo. L’uomo buono dal buon tesoro del suo cuore trae fuori il bene; l’uomo cattivo dal suo cattivo tesoro trae fuori il male: la sua bocca infatti esprime ciò che dal cuore sovrabbonda».
Approfondimento
Ipocrita… – Comunità Monastica di Pulsano: Alla critica, in cui si usa la verità per trionfare sull’altro, si deve sostituire l’autocritica. Così ci si scopre, al pari degli altri, bisognosi di misericordia. Questa ci toglie la cecità e ci mette in grado di togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello allo stesso modo in cui è stata tolta la nostra trave: infatti la misericordia guarisce il male altrui e salva dal proprio! Se agisco diversamente, non ho conosciuto Dio.
Ho nell’occhio una “trave”, che mi impedisce di vedere; sono cieco, chiuso nelle tenebre di una presunta giustizia senza grazia. Sono “ipocrita”! Con questa parola Gesù stigmatizza il grande peccato: quello di Adamo, che volle mettersi al posto di Dio, lo stesso del fariseo, che gli fa cercare la propria gloria e l’autosalvezza. “Ipocrisia” non significa “finzione”, bensì “protagonismo”. È il tentativo di cercare il primo posto in tutto e farsi centro di tutto: è mettere l’io al posto di Dio.
L’ipocrita nel teatro greco era il protagonista che rispondeva al coro. Luca ci dà un’illustrazione “pura” di questo peccato nel fariseo che si ritiene giusto – e lo è! – e ringrazia Dio… disprezzando il peccatore (18,9ss). È un richiamo al discepolo perché, identificandosi col fariseo, si riconosca peccatore col pubblicano e, come lui, esca giustificato dalla misericordia di Dio.
Ipocrita! Estrai prima la trave, quella nell’occhio tuo… Questo versetto proibisce la critica e la esclude come via alla correzione fraterna. È piuttosto lo zelo di donna Prassede. Correggerò me stesso, invece dell’altro! L’unica correzione possibile dell’altro, in modo che non si indurisca nel male, è il mio occhio buono di perdono e di misericordia. Ma tutto questo viene dalla conoscenza del mio male e dall’accettazione che Dio mi offre. Se l’altro si sente assolto o graziato, può camminare. Diversamente si chiude nel male e io ne sono responsabile.
Anche Matteo, prima di ogni correzione fraterna (Mt 18,15ss), pone l’accettazione incondizionata (parabola della pecora smarrita: Mt 18,12ss). Agire diversamente è essere guide cieche di altri ciechi che filtrano il moscerino e ingoiano il cammello (Mt 23,24). Giudicare gli altri e giustificare se stessi è il grave peccato di cecità che impedisce di conoscere il proprio male e di conoscere Dio.
Questa duplice conoscenza è data nella misericordia. Al discepolo è chiesto di estromettere la propria trave che lo rende cieco: non deve credersi giusto e non bisognoso di misericordia! Così è guarita in radice la pianta cattiva. Allora è in grado di togliere il bruscolo dal-l’occhio del fratello. Non con un’operazione oculistica complicata, bensì semplicemente con il suo occhio buono: vede buono e fa buono, comunicando un’esperienza di bontà. L’altro è da me graziato come io sono stato graziato! Il mio occhio verso l’altro è lo stesso di Dio verso di me!
Importante notare il paradosso reale della misericordia: la grandezza del peccato che scopro in me sarà il titolo, quasi il merito alla misericordia di Dio. Più uno è peccatore, più è degno di amore misericordioso. E, come ho sperimentato Dio nei miei confronti, sono io nei confronti dell’altro.
Commento al Vangelo
Misericordia – Comunità Monastica di Pulsano: Il “comanda-mento” di 6,36, sintesi di tutto il discorso sulla misericordia, è l’unica strada “maestra” per la salvezza. Contro possibili e facili deviazioni, viene ora confermato con una serie di similitudini. Chi insegna diversamente è una guida cieca (v. 39), un falso maestro (v. 40); chi agisce diversamente, criticando il male altrui e non vedendo il proprio, è un ipocrita (vv. 41-42).
- 39: “Forse può un cieco, ecc.”. […] Chi è questo cieco che vuol fare da guida agli altri? Ai tempi di Gesù era il fariseo, che sperava la salvezza dalla propria conoscenza e osservanza perfetta della legge. Per Luca è il cristiano che giudica, condanna, non assolve e non dona.
Caratteristica del cieco è non potersi muovere, pur avendo l’ap-parato locomotorio in ordine. La realtà gli si volge contro e gli fa male. Così chi non ha misericordia ignora il senso della vita e non sa orientarsi: vi si muove dentro alla cieca e vi sbatte contro facendosi male. Come la luce fu il principio della creazione, così la misericordia è il principio della ricreazione, talmente potente da riportare al bene addirittura ciò che è male.
In realtà nessuno di noi può fare da guida a un altro: siamo tutti ciechi, sgraziati e cattivi. Alla salvezza ci guida solo il maestro della misericordia: egli è la verità, che è scesa tra noi e si è fatta nostra via per condurci alla vita. Ma a sua volta, come lo specchio riverbera il sole, così ciascuno di noi può essere luce per l’altro nella misura in cui è colpito dal raggio di misericordia. Il discepolo che accoglie la benevolenza e la cháris di Dio in Gesù, è capace di testimoniarla “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).
- 40: “Non c’è discepolo sopra il maestro, ecc.”. Gesù ci ha insegnato cosa fare. Invece di seguire la sua parola e il suo esempio, per dimenticanza, stupidità e presunzione, il discepolo è tentato di seguire altre vie che pensa più perfette. Confuso dalle tenebre, crede di essere illuminato. Ma sa che come la luna non può avere più luce del sole, così lui non può saperne più del suo maestro. Per la comunità di Luca questa presunta luce maggiore forse consisteva in pretese rivelazioni personali o in conoscenze esoteriche che potevano offrirsi come alternative o completive e più perfette vie di salvezza. Anche oggi come allora, l’uomo è specialista nell’inventare vie di salvezza spirituali, psicologiche, economiche, politiche e sociali, magari facendo un fritto misto di tutto: il New Age c’è sempre, in ogni epoca! Ma inutilmente, perché la salvezza altro non è che la misericordia del Padre nella “carne” di Gesù. È un fatto, non un’ideologia o un’illuminazio-ne! Tutto il resto coadiuva alla salvezza o meno, nella misura in cui porta o meno il sigillo di questa misericordia. La tentazione più forte dell’uomo, che necessariamente cerca salvezza, è quella di non fidarsi di Dio e di inventare vie nuove proprio perché è mosso da quest’antica sfiducia. La tentazione di “salvare se stesso” e di non accettare la salvezza come misericordia del Padre nella miseria reale, è il triplice ritornello ripetuto a Gesù in croce (23,35.37.39).
Quanti disperanti e disperati tentativi fa l’uomo nel cercare altre vie di salvezza! Sembra di vedere un naufrago in mare, che attende inutilmente scialuppe di salvataggio che non arrivano mai, mentre rifiuta gli elicotteri che gli sono stati mandati!
- 41.42a: “Pagliuzza / trave”. […] Invece che per giudicare se stessi (v. 42a), si usa la verità di misericordia per giudicare gli altri che ne mancano (v. 41). È un errore istintivo e comune a tutti. Il risultato immediato è quello di premere l’interruttore e spegnere la luce della misericordia. La salvezza subito si tramuta in condanna altrui da parte mia e quindi in condanna di me, che, proprio perché condanno, risulto senza misericordia! In questo modo la Parola che dovrebbe salvare, opera solo danni, perché, invece di lasciarmi convertire, l’ho usata come rappresaglia contro l’altro. La Bibbia è un libro che mi serve per battermi il petto, non per picchiarla in testa all’altro.
- 43: “Infatti non c’è albero bello, ecc.”. Ciò che faccio scaturisce da ciò che sono, il frutto è della qualità dell’albero. Come il fico non si sforza di fare fichi non può fare altro! – così è inutile che mi sforzi di fare frutti buoni, se sono cattivo. Il problema è di che legno sono. Esiste infatti pianta e pianta: albero che fa morire e albero che fa vivere.
Ora fiorisce in grazia e misericordia e fruttifica nei doni dello Spirito del Signore asceso al cielo. Chi osserva la “pagliuzza” (kárphos), non ha tale “frutto” (karpós). Perché questo frutto, che ci rende simili a Dio (cfr. vv. 35.36) è la misericordia stessa. Essa è donata a chi, vedendo la “trave” nel proprio occhio e sapendo di essere cieco, invoca su di sé la misericordia di Dio.
- 44: “Poiché ogni albero dal proprio frutto è conosciuto, ecc.”. Dalle mie azioni conosco di essere del legno della pianta antica, che dà frutti di morte. Chiaramente non faccio il frutto del “fico” (cfr. 13,6-9), l’albero che fa ombra alla casa; infatti non ho una casa dove abitare, fino a quando sono fuori dalla misericordia di Dio. I fichi e l’uva – i frutti di chi abita nella terra di Dio – sono i doni dello Spirito: non scaturiscono dalla nostra giustizia, ma dalla sua grazia per noi sgraziati e maturano sull’albero della sua misericordia, la croce di Gesù.
- 45: “L’uomo buono dal buon tesoro del cuore, ecc.”. Il principio della bontà o meno non sta nelle cose, ma nel “cuore”. Se esso è stato “bonificato”, farà frutti di misericordia, e saprà volgere in bene il male. È infatti pieno della cháris di Dio in Cristo e vive di questo tesoro, che è il “buon tesoro del cuore”. Diversamente rimane un capitale di nequizia, accresciuto dalle azioni subite e moltiplicato da quelle fatte.
Riflessione
Discernimento e giudizio – E. Cuffaro: L’albero non si riconosce dalla sua apparenza o dalla sua forma, ma dai frutti che produce (cfr. v. 44). Da qui risulta anche molto chiaramente che il precetto evangelico del “non giudicare” non consiste affatto, come erroneamente si crede, nel pensare bene di tutti; questo sarebbe piuttosto un peccato contro la verità. Il Signore vuole nella nostra mente la luce del discernimento, in virtù della quale poter vedere nella giusta luce cose e persone, ed essere in grado di chiamarle col loro nome. Tutto questo, però, va coniugato con l’amore. Infatti, ciò che impedisce al discernimento di tramutarsi in giudizio, è l’amore.
Come può conciliarsi l’invito di Gesù a distinguere la vera natura di ogni persona con l’imperativo che impone al discepolo di non giudicare nessuno (cfr. vv. 41-42 e anche Mt 7,1)? Tutto dipende dalla comprensione della differenza tra discernimento e giudizio.
Apparentemente, ossia nella loro manifestazione esteriore, sembrano uguali, ma sono diversissimi nella loro natura e nei loro rispettivi scopi. Le differenze possono elencarsi come segue: il giudizio è una valutazione priva d’amore, che porta una serie di alterazioni del comportamento.
Quando noi giudichiamo qualcuno nel nostro pensiero, dobbiamo osservare se e come cambia il nostro comportamento verso di lui. Se la valutazione negativa che abbiamo dato di lui nel nostro pensiero, genera in noi un comportamento negativo verso tale persona, fatto di indifferenza, disprezzo, fuga dalla sua compagnia, indisponibilità al dialogo e all’aiuto, allora abbiamo operato un giudizio e non un discernimento.
Un’altra differenza si può cogliere nella modalità dell’espressione verbale delle valutazioni formulate nel segreto del proprio pensiero. Intendiamo dire che, colui che discerne, non è portato a manifestare agli altri i suoi interiori giudizi, a meno che non vi sia un motivo grave, come ad esempio la custodia di equilibri e di valori che potrebbero essere realmente minacciati dal male che si è individuato nel proprio discernimento. Ma in questo caso, i risultati del discernimento non vengono manifestati a chiunque, bensì, in modo riservato, solo a coloro a cui questa conoscenza può giovare. Il giudizio, invece, spinge la persona a parlare delle proprie valutazioni a qualunque interlocutore, prescindendo dall’utilità che questi possa averne; nei casi peggiori, il giudizio genera la maldicenza e la mormorazione.
In conclusione, possiamo dire che la natura del discernimento tende a separare la stima dall’amore; vale a dire: quando uno, valutando l’esito della vita di una determinata persona, giunge alla conclusione che essa non è degna di stima, allora la stima le viene giustamente sottratta. Il Signore, infatti, non ci chiede di stimare coloro che vivono nel disordine del peccato e delle passioni, ma solo di amarli. La stima, com’è ovvio, si può dare soltanto agli uomini virtuosi e ricchi di valori positivi.
Di conseguenza, colui che discerne, se si trova costretto a sottrarre la stima, non sottrae però l’amore; mentre colui che giudica, pervenendo alle stesse conclusioni, sottrae a un tempo la stima e l’amore, come se fossero due sentimenti inseparabili.
La distinzione tra il giudizio e il discernimento non ha, a questo riguardo, alcun margine di incertezza: se nelle nostre relazioni interpersonali manteniamo sempre separati la stima e l’amore, in modo tale che amiamo anche coloro che non possiamo stimare, allora abbiamo la certezza che le nostre valutazioni sono un discernimento evangelico. Se, invece, sottratta la stima, sottraiamo anche l’amore, allora la nostra valutazione è un giudizio.
La pagina dei Padri
L’uomo semplice e retto, timorato di Dio – San Gregorio Magno: C’è un genere di semplicità che meglio sarebbe chiamare ignoranza. Essa consiste nel non sapere neppure che cosa sia rettitudine. Molti abbandonano l’innocenza della vera semplicità, proprio perché non sanno elevarsi alla virtù e all’onestà. Poiché sono privi della vera prudenza che consiste nella vita buona, la loro semplicità non sarà mai sinonimo di innocenza.
Perciò Paolo ammonisce i discepoli: «Voglio che siate saggi nel bene e immuni dal male» (Rm 10,19). E soggiunge: «Non comportatevi da bambini nei giudizi; siate come bambini quanto a malizia» (1Cor 14,20).
Per questo anche la stessa Verità ingiunge ai discepoli: «Siate prudenti come i serpenti e semplici come le colombe» (Mt 10,16). Ha unito necessariamente l’una e l’altra cosa nel suo ammonimento, in modo che l’astuzia del serpente ammaestri la semplicità della colomba, e la semplicità della colomba moderi l’astuzia del serpente.
Per questo lo Spirito Santo ha manifestato la sua presenza agli uomini sotto forma non soltanto di colomba, ma anche di fuoco. Nella colomba viene indicata la semplicità, nel fuoco l’entusiasmo per il bene. Si mostra nella forma di colomba e nel fuoco perché quanti sono ricolmi di lui, praticano una forma tale di mitezza e di semplicità da infiammarsi d’entusiasmo per le cose sante e belle e di odio per il male.