20 Febbraio 2019 – Mercoledì, VI del Tempo Ordinario – (Gen 8,6-13.20-22; Sal 115[116]; Mc 8,22-26) – I Lettura: Noè, dopo essere scampato al diluvio, esprime la riconoscenza a Dio offrendogli un sacrificio. Dio gradisce molto il sacrificio offerto da Noè a tal punto da stabilire una’alleanza attraverso la quale Dio promette di non intervenire mai più in modo così drastico sull’umanità. Vangelo: “Questo episodio prepara quello della professione di fede di Pietro. La guarigione è lenta e avviene in due tempi, con allusione alla difficoltà che la gente ha nel ‘vedere’ chi è realmente Gesù di Nàzaret” (Bibbia di Gerusalemme, nota). “L’evangelista Marco sottolinea l’aspetto concreto dell’azione di Gesù: la saliva, il toccare, l’imporre le mani, come se prefigurasse l’attuale azione del Signore, che sempre avviene attraverso dei segni, dei sacramenti” (P. Curtaz).
Il cieco fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa – Dal Vangelo secondo Marco: In quel tempo, Gesù e i suoi discepoli giunsero a Betsàida, e gli condussero un cieco, pregandolo di toccarlo. Allora prese il cieco per mano, lo condusse fuori dal villaggio e, dopo avergli messo della saliva sugli occhi, gli impose le mani e gli chiese: «Vedi qualcosa?». Quello, alzando gli occhi, diceva: «Vedo la gente, perché vedo come degli alberi che camminano». Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente, fu guarito e da lontano vedeva distintamente ogni cosa. E lo rimandò a casa sua dicendo: «Non entrare nemmeno nel villaggio».
Riflessione: «Allora gli impose di nuovo le mani sugli occhi ed egli ci vide chiaramente». C’è un tema che lega oggi le letture della Liturgia della Parola: la gradualità. Il libro della Gènesi parla della purificazione del mondo attraverso le acque del diluvio: queste raggiungono ogni punto della terra e poi si ritirano con gradualità, tanto che Noè più volte prova, col corvo prima e con la colomba poi, per vedere se vi era già terraferma o no. Le acque si ritirano e finalmente Noè e coloro che erano saliti con lui sull’Arca, uomini e animali, poterono tornare sulla terra purificata. Non è un caso che l’autore sacro insiste su questa gradualità del ritiro delle acque, contando quasi i giorni, di settimana in settimana. La stessa gradualità la riscontriamo nel miracolo evangelico, operato da Gesù in favore di un cieco: forse che il Signore non avrebbe potuto rendergli la vista con un’azione immediata? Forse che in altre occasioni egli non ha mostrato in pienezza la sua assoluta potenza dinanzi alle malattie e perfino agli stessi demòni? Eppure ora assistiamo a questo “strano” miracolo, quasi a puntate, con una guarigione che avviene con gradualità. Certamente, se Dio opera in questo modo è perché ha un chiaro messaggio che vuol donarci: non sempre è tutto semplice, facile e immediato nella vita, anche nella vita spirituale! Non sempre la fede è ferma, la volontà pronta, il cuore perseverante nella virtù: spesso ci ritroviamo a fare i conti con le nostre incertezze, con le cadute, con gli smarrimenti… vediamo, sì, ma in maniera confusa; crediamo, sì, ma avanzando con passo vacillante e insicuro…
La Parola di Dio commentata dal Magistero della Chiesa: L’universalità del peccato nella storia dell’uomo – Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 17 Settembre 1986): Già in Genesi 4 leggiamo ciò che avvenne tra i due primi figli di Adamo e di Eva: il fratricidio compiuto da Caino su Abele, fratello minore di lui. E già nel capitolo sesto si parla dell’universale corruzione a causa del peccato: “II Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra e che ogni disegno concepito dal loro cuore non era altro che male” (Gen 6,5). E in seguito: “Dio guardò la terra ed ecco essa era corrotta, perché ogni uomo aveva pervertito la sua condotta sulla terra” (Gen 6,12). Il Libro della Genesi non esita a dire in questo contesto: “E il Signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuor suo” (Gen 6,6). Sempre secondo questo Libro, la conseguenza di quell’universale corruzione a causa del peccato è il diluvio ai tempi di Noè (Gen 7-9). Nella Genesi (Gen 11,1-9) viene menzionata anche la costruzione della torre di Babele, che diventò – contro le intenzioni dei costruttori – occasione di dispersione degli uomini e di confusione delle lingue. Ciò significa che nessun segno esterno, e analogamente nessuna convenzione puramente terrena, basta a realizzare l’unione tra gli uomini, se manca il radicamento in Dio. A questo proposito dobbiamo osservare che, nel corso della storia, il peccato si manifesta non solo come un’azione chiaramente rivolta “contro” Dio; a volte esso è anche un agire “senza Dio”, come se Dio non esistesse; è un pretendere di ignorarlo, di fare a meno di lui, per esaltare invece il potere dell’uomo, del quale si presume oltre ogni limite. In questo senso la “torre di Babele” può essere un ammonimento anche per gli uomini di oggi.
Alzerò il calice della salvezza – Card. Gianfranco Ravasi (Commento ai Salmi): La versione greca dei Settanta, seguita dalla Volgata latina, ha spezzato questo salmo, caro a Paolo (lo cita in 2Cor 4,13 e in Rm 3,4), in due composizioni diverse. In realtà si tratta di un unico canto di ringraziamento di sapore liturgico, segnato dall’invocazione del nome del Signore: per tre volte si ripete la frase besem-JHWH ‘eqrah, «invoco il nome di JHWH» (vv. 4.13.17). Dopo l’evocazione di un incubo da cui Dio lo ha liberato (vv. 1-6), il salmista in un soliloquio «anima mia, torna alla pace…» canta la sua totale fiducia nell’amore divino anche quando l’infelicità occupa l’orizzonte della vita (vv. 7- 13). È per questo che ora, nel Tempio e davanti all’assemblea, egli sta sciogliendo la sua todah, cioè il suo sacrificio di ringraziamento (vv. 14-19). Fedele servo di Dio, membro della sua stessa famiglia come dice la locuzione tecnica «figlio della tua ancella» (v. 16), egli ora davanti al Dio dell’amore leva «il calice della salvezza» (v. 13), la coppa rituale della libazione, segno della gioia che il Signore ha ormai riportato all’interno della sua vita. Tra gli ammiratori di questo salmo dobbiamo registrare un nome insolito, Voltaire, che prediligeva il v. 12: «Che cosa posso offrire al Signore per i doni che mi ha elargito?».
La Parola di Dio commentata dai Padri della Chiesa: “Se tu dicessi: «Mostrami il tuo Dio»; io ti direi: «Mostrami il tuo uomo e io ti mostrerò il mio Dio». Mostra quindi se gli occhi della tua mente vedono e se le orecchie del tuo cuore odono. Infatti, come gli occhi corporei percepiscono gli oggetti che si muovono su questa terra, notando le differenze fra una cosa e l’altra, la luce e le tenebre, il bianco e il nero, il brutto e il bello, il simmetrico e l’asimmetrico, il proporzionato e il deforme [e analogamente si deve dire a proposito di quanto è udito dalle orecchie: suoni acuti o gravi o armoniosi], non diversamente le orecchie del cuore e gli occhi della mente possono vedere Dio. Infatti, Dio può essere visto soltanto da coloro che sono in grado di vederlo, da coloro, cioè, che hanno gli occhi dello spirito ben aperti. Infatti, sebbene tutti abbiano gli occhi, quelli di talune persone sono talora avvolti dall’oscurità e perciò incapaci di contemplare la luce del sole. Se i ciechi non sono in grado di vedere nulla, non per questo la luce del sole non risplende: la causa è da ravvisarsi unicamente nella loro cecità. Allo stesso modo, anche gli occhi del tuo spirito sono accecati dai tuoi peccati e dalle cattive azioni che commetti. L’anima dell’uomo dev’essere pura come uno specchio terso. Una volta formatasi la ruggine sullo specchio, il volto dell’uomo non può più riflettervisi: similmente, l’uomo offuscato dal peccato non può vedere Dio. […] Infatti Dio non si manifesta a coloro che si comportano in questo modo, se non si siano dapprima purificati da ogni macchia. Tutte queste cose portano le tenebre dentro di te, come quando sopraggiunge l’albugine nei tuoi occhi rendendoli incapaci di fissare la luce del sole. Allo stesso modo, anche i tuoi peccati diffondono intorno a te l’oscurità in maniera che tu non possa più riconoscere Dio» (Teofilo di Antiochia).
Silenzio / Preghiera / La tua traccia: «Gesù vuole aiutare i suoi discepoli ad aprirsi all’ascolto della verità, a vederci chiaro nella propria vita, a rendersi abili, a parlare correttamente della propria fede. Finché non si vede distintamente, come il cieco guarito, finché non si vede Gesù nella vera luce della sua identità non si è ancora adatti per l’annuncio del vangelo. Non credere significa diventare come i pagani, che somigliano ai loro idoli i quali “hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono…” [Sal 105,4-6]. In tutta questa sezione del vangelo Gesù rimprovera più volte i suoi discepoli perché non capiscono o non vogliono vedere chiaramente la realtà. Ma, mentre egli fa questi rimproveri, guarisce un sordo e un cieco, e la cosa diventa un segno della guarigione spirituale dei discepoli. Così essi diventeranno capaci di dire (finalmente!): “Tu sei il Cristo!” [Mc 8,29]. Ma la loro guarigione non è completa. Infatti, si riveleranno altrettanto chiusi al nuovo insegnamento di Gesù sul cammino del Cristo verso la croce. Gesù avrà di nuovo a che fare con le loro orecchie tappate e i loro occhi ciechi, e la sua difficoltà a guarire fisicamente un sordomuto e un cieco manifesta appunto la difficoltà a guarire il cuore dei discepoli. Marco descrive questi due miracoli come segni di una guarigione interiore: guarigione della sordità e della cecità spirituale. La guarigione del cieco di Betsaida avviene in due tempi, ed è un fatto unico in tutto il Vangelo: si presta a simboleggiare il viaggio della fede, che avviene progressivamente e non senza esitazioni. Questa guarigione è un gesto profetico di Gesù e simboleggia lo schiudersi degli occhi dei suoi discepoli alla sua messianicità. Gesù è l’unica luce che dà la vista, che illumina ogni uomo (Gv 1,9). Il discepolo è un cieco che sa di esserlo, riconosce l’impossibilità di guarire da solo e lascia che il Signore agisca secondo la sua misericordia» (Padre Lino Pedron).
Santo del giorno: 20 Febbraio – Santa Giacinta Marto, Fanciulla: Nata l’11 marzo 1910 ad Aljustrel, frazione di Fatima in Portogallo, Giacinta Marto era l’undicesima e ultima figlia di Emanuele Pietro Marto e Olimpia de Jesus. Insieme al fratello Francesco e alla cugina Lucia, fu una dei veggenti delle apparizioni mariane di Fatima, tra il maggio e l’ottobre 1917. D’indole vivace, imparò ad accettare di buon grado le sofferenze, anche compiendo piccoli sacrifici per amore di Dio e della Madonna. Ammalatasi durante una violenta epidemia di influenza “spagnola” nel 1918, morì il 20 febbraio 1920 nell’ospedale «Dona Estefânia» di Lisbona, a nove anni e undici mesi. Suo fratello Francesco l’aveva preceduta il 4 aprile 1919. Entrambi sono stati beatificati da san Giovanni Paolo II il 13 maggio 2000 e canonizzati da papa Francesco diciassette anni esatti dopo. I resti mortali di Giacinta Marto sono venerati nella Basilica di Nostra Signora del Rosario di Fatima.
Preghiamo: O Dio, che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora. Per il nostro Signore Gesù Cristo…