febbraio, Liturgia

IV Domenica del Tempo Ordinario (C) 3 Febbraio 2019

Dal libro del profeta Geremìa (1,4-5.17-19) – Ti ho stabilito profeta delle nazioni: Sono tratteggiati alcuni aspetti del tutto particolari della vocazione di Geremìa. L’espressione ti ho conosciuto equivale a scegliere e predestinare (Am 3,2; Rm 8,29). Il profeta dovrà sostenere aspre guerre ma non sarà vinto, purché ponga ogni fiducia in Dio. Il Signore sarà sempre al suo fianco per liberarlo da qualsiasi attacco da parte dei suoi oppositori. Un elemento distintivo dell’attività profetica e missionaria di Geremìa sarà l’universalità: egli sarà stabilito profeta delle nazioni.

Dal Salmo 70 (71) – La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza: «Se Dio manifesta una cura così sollecita anche nei confronti di cose di modesto valore (l’erba e i fiori, ad esempio), come potrà dimenticare te, che sei la più eccellente delle sue creature? Perché dunque ha creato cose tanto belle? Per manifestare la sua sapienza e la grandezza della sua potenza, affinché conoscessimo in tutto la sua gloria. Non soltanto i cieli narrano la gloria di Dio (Sal 18,2), ma anche la terra, come rileva Davide, quando cantava: Lodate il Signore, alberi da frutto e tutti i cedri (Sal 148,9). Alcune creature, infatti, rendono lode al Creatore con i loro frutti, altre con la loro grandezza, altre ancora con la loro bellezza» (San Giovanni Crisostomo).

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (12,31-13,13 forma breve 13,4-13) – Rimangono la fede, la speranza, la carità; ma la più grande di tutte è la carità: Ai cristiani di Corinto, affamati di carismi, Paolo indica il primato della carità. Questa virtù, tutta cristiana, deve informare tutti i carismi per cui deve essere posta al di sopra di tutte le manifestazioni carismatiche. I doni straordinari se non sono esercitati con amore sono come corpi senza anima. La carità sopravvivrà anche alla fine della vita terrena: solo l’uomo che ha amato potrà contemplare il volto dell’Amore.

Dal Vangelo secondo Luca (4,21-30) – Gesù come Elìa ed Eliseo è mandato non per i soli Giudei: Rifiutato dai nazaretani, Gesù volta le spalle alla sua città. Lo sdegno concepisce progetti omicidi, ma anche se ben determinati, i nazaretani non riescono ad uccidere Gesù: falliscono nel loro tentativo perché non era giunta la sua ora. Respinto e rifiutato dai suoi compatrioti, Gesù si mette in cammino per portare altrove l’annuncio della salvezza. Ha inizio così l’opposizione al ministero di Gesù, una opposizione che con il passare i giorni si farà sempre più cieca: l’acme sarà raggiunto quando gli oppositori decideranno di lordarsi le mani del sangue di un innocente.

Dal Vangelo secondo Luca

In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.

Approfondimento

      I carismi e l’agape (1Cor 13) – G. B. (Carismi in Schede Bibliche Pastorali, EDB): Contro la sopravvalutazione dei carismi, propria dei suoi interlocutori, Paolo fa valere anzitutto l’amore come fattore determinante dell’autentica esistenza cristiana: «Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla» (vv. 1-2).

  Paolo vuole qui presentare il ritratto del carismatico più dotato in possesso dei doni della glossolalia, del carisma profetico, dell’illi-mitata penetrazione dei misteri di Dio e del mondo (sophia), di ogni conoscenza ispirata (gnósis), della fede taumaturgica capace di compiere l’impossibile. Ebbene, si domanda, che cosa sarebbe il credente carismatico più sublime privo però di amore? La risposta è che il glossolalo equivarrebbe a un gong o a un tamburo che emette suoni assordanti, mentre il sapiente e il taumaturgo sarebbero semplicemente dei nulla.

  In chiusura del capitolo poi Paolo paragona l’agape ai carismi. Questi cesseranno di esistere nel mondo futuro, mentre quella non verrà mai meno. Il motivo: i carismi sono realtà parziali, limitate e imperfette, mentre l’agape costituisce semplicemente la perfezione cristiana. Paolo aggiunge quindi che la realtà perfetta abolisce quanto è imperfetto. Ed esemplifica con l’età infantile e l’età adulta.

  «La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato» (vv. 8-11). Paolo ha così ridimensionato l’im-portanza dei carismi, anche di quelli più utili all’edificazione della comunità. Ogni loro massimalistica sopravvalutazione è ingiustificata. La perfezione non sta nelle manifestazioni carismatiche, ma nel-l’agape. Allo stesso modo, non sono le esperienze mistiche che anticipano il mondo futuro nel nostro attuale, ma l’agire di chi ama. Anzi, i carismi sono l’espressione caratteristica della storicità dell’esi-stenza del credente. E come tali cesseranno di esistere con la fine di questo mondo.

Commento al Vangelo

  Non è il figlio di Giuseppe? – A Nazaret Gesù era cresciuto in «sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). Ma nulla era trapelato del grande mistero divino. Proprio per questa conoscenza superficiale gli abitanti di Nazaret sentendo Gesù predicare nella loro sinagoga si meravigliano delle «parole di grazia che uscivano dalla sua bocca». Con questa espressione – «parole di grazia» -, Luca allude non a discorsi eruditi, ma a discorsi sapienziali, a parole profetiche, carismatiche, ispirate. Alla meraviglia si mescola l’ incredulità.

  I nazaretani conoscono Giuseppe, Maria e il loro parentado (cfr. Mt 13,55-56), per cui nulla fa ritenere veritiero di quanto avevano ascoltato. Perciò per credere esigono un segno perché, come era scritto nella Legge di Mosè (cfr. Dt 13,2), solo un miracolo poteva attestare le presunte qualità messianiche di Gesù. A queste aspettative, Gesù risponde in modo caustico citando un proverbio ebraico attestato nei midrashìm: «Medico, cura te stesso».

  La risposta di Gesù va verso altre direzioni. Dio non opera miracoli per compiacere le curiosità degli uomini. A muovere l’azione miracolosa di Dio è la fede e se a Nazaret non accade quanto era accaduto a Cafarnao è per l’incredulità dei suoi abitanti (cfr. Mt 13,58).

  Per accostarsi al mistero del Cristo, per conoscerlo, per entrarvi dentro, occorre la fede, non i miracoli. La fede non chiede segni, perché una fede che esige miracoli non è una vera fede (cfr. Gv 20,29).

  Alle difficoltà e alla incomprensione dei nazaretani, Gesù risponde con un excursus biblico. Al tempo del profeta Elìa il cielo si era chiuso perché Israele aveva apostatato. Solo una donna pagana aveva potuto beneficiare dell’azione miracolosa di Dio (cfr. 1Re 17,1-6). E al tempo del profeta Eliseo solo Naaman il Siro, un pagano, un cane (epiteto che gli ebrei davano ai pagani cfr. Mt 15,26; Fil 3,3), un dannato agli occhi degli Israeliti, che si ritenevano giusti dinanzi a Dio (cfr. Lc 16,15), poté essere guarito perché aveva creduto alle parole del profeta (cfr. 2Re 5,1-14).

  Queste parole di Gesù suonano come un’accusa insopportabile e fa saltare i nervi agli Israeliti convenuti nella sinagoga: «tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno». Un sentimento acido che nasceva dal fatto che i congregati nella sinagoga avevano compreso bene che la missione di Gesù «superava i limiti angusti d’Israele ed era destinata a tutte le nazioni. Era uno schiaffo per il nazionalismo esasperato degli ebrei, che attendevano dal Messia la liberazione dal giogo straniero e la restaurazione del regno davidico per il dominio su tutte le nazioni pagane» (Angelico Poppi).

  E poiché lo sdegno è a un passo dalla follia, così l’azione precipita e Luca lo sottolinea con un inarrestabile crescendo: si alzarono… lo cacciarono fuori della città… lo condussero fin sul ciglio del monte… per gettarlo giù dal precipizio.

  Ma al di là delle reazioni concitate dei nazaretani, nelle parole di Gesù si possono cogliere alcune sfumature. Innanzi tutto, l’univer-salità della Buona Notizia: essa è rivolta a tutti gli uomini e non contano affatto parentele o appartenenze a clan o a gruppi. La preferenza data a Cafarnao entra dentro questa logica divina. Di fatto, di lì a poco, abbandonando Nazaret Gesù ritornerà a Cafarnao, il «paese di Zàbulon e il paese di Neftali, sulla via del mare, al di là del Giordano, Galilea delle genti» (Mt 4,13).

  Poi, alcuni particolari fanno pensare ad un annuncio della passione del Cristo. L’annotazione – «lo cacciarono fuori della città» – fa ricordare la parabola dei vignaioli omicidi i quali cacciarono il figlio unigenito «fuori della vigna e l’uccisero» (Lc 20,9ss). Gesù morirà crocifisso fuori le mura della città di Gerusalemme. Il rifiuto dei nazaretani è una spaventosa anteprima di quanto accadrà al Cristo: vi è celata quella dura opposizione a cui andrà incontro Gesù e che segnerà la sua orrenda morte.

  Al tentativo di precipitarlo giù dal precipizio, Gesù «passando in mezzo a loro, si mise in cammino». Gesù non compie un miracolo, che d’altronde si era rifiutato di compiere, ma vuol fare capire ai suoi oppositori che lui andrà avanti per la sua strada, gli uomini potranno ritardare il suo progetto, ma non potranno impedire il suo compimento. Una verità che troviamo espressa soprattutto nel vangelo di Giovanni: i nemici del Cristo non possono attentare alla sua vita, finché «la sua ora non è giunta» (cfr. Gv 7,30; 8,20.59; 10,39; 11,54).

Riflessione

  … fallo anche qui, nella tua patria! – Una pretesa assurda eppure chiedono un miracolo! Secondo i suoi compaesani Gesù avrebbe dovuto ripetere nel suo villaggio tutti quei miracoli che aveva compiuto altrove, particolarmente a Cafarnao.

  Il miracolo è stato sempre per molti una questione spinosa e per molti altri una condizione necessaria per credere; c’è chi lo pretende e c’è chi non lo esige; alcuni lo vedono dove non c’è, altri lo negano sfacciatamente. Eppure tutta la sacra Scrittura racconta fatti, eventi prodigiosi, che non sono cessati con la morte dell’ultimo apostolo, ma che continuano nella storia bimillenaria della Chiesa.

  Si definisce miracolo (dal latino «miraculum», cosa meravigliosa) un evento dovuto ad un intervento soprannaturale o divino, durante il quale le leggi naturali sembrano sospese.

  L’Antico Testamento racconta fatti ed eventi prodigiosi ora compiuti da Jahvé ora dagli uomini investiti dalla potenza di Dio. Ma nonostante tutto ama soffermarsi su un fatto fondamentale della storia ebraica: l’esodo, «il miracolo della fondazione del popolo di Dio… Quando i testi biblici ricordano al pio israelita la potenza di Dio, alludono sempre al prodigio del Mar Rosso che coronò l’esodo dall’E-gitto. Senza questa manifestazione della potenza di Dio, avvenuta in un momento storico decisivo, non vi sarebbe la religione di Jahvé e neppure Israele» (F. L. – G. B.).

  Il Nuovo Testamento riferisce numerosi miracoli operati da Gesù, che consistono di solito in guarigioni dai mali fisici e spirituali.

  Se i miracoli «compiuti da Gesù testimoniano che il Padre lo mandato» e «sollecitano a credere in lui», va sottolineato che i prodigi compiuti da Gesù non «mirano a soddisfare la curiosità e i desideri di qualcosa di magico» (CCC 548). Da ricordare, come fatto fondamentale, la tentazione di satana che nel deserto propone a Gesù di cambiare i sassi in pane. Da ricordare, dopo la moltiplicazione dei pani, come Gesù si nasconda per fuggire alla gente che voleva farlo re. Gesù evita che i miracoli da lui operati possano venir equivocati dalla folla. Numerose sono le volte che Gesù chiede ai miracolati di rimanere in silenzio e di non dirlo, e quasi sempre è fatto divieto a chi riceve un miracolo di seguirlo.

  Nell’ottica complessiva del messaggio evangelico, l’unico segno attorno a cui ci si deve convertire è quello duro e crudo della croce. Il Nuovo Testamento riferisce anche di miracoli operati dagli Apostoli, attribuendoli esplicitamente al potere concesso loro da Gesù, perché potessero testimoniare la loro fede e annunciare il regno di Dio. Essi vengono presentati dagli evangelisti come opere di Gesù, il Cristo, e sono considerati come parte della proclamazione del regno divino, a solo scopo di sollecitare il pentimento e la conversione a Dio (cfr. Mc 16,15-20). Ma i miracoli fondamentali del cristianesimo sono l’Incar-nazione e la Risurrezione di Gesù Cristo dai morti. Su questi due miracoli si basa essenzialmente la fede della Chiesa cristiana.

  Si deve chiudere, allora, definitivamente con Guadalupe, Lanciano, Lourdes, Fatima? La tentazione capziosa di negare i miracoli potrebbe assomigliare a un rigurgito di orgoglio, un tentativo maldestro di condizionare o limitare l’azione di Dio. Infatti, a volte, «“per-ché l’ossequio della nostra fede fosse conforme alla ragione, Dio ha voluto che agli interiori aiuti dello Spirito Santo si accompagnassero anche prove esteriori della sua Rivelazione”. Così i miracoli di Cristo e dei santi [cfr. Mc 16,20; Eb 2,4] le profezie, la diffusione e la santità della Chiesa, la sua fecondità e la sua stabilità “sono segni certissimi della divina Rivelazione, adatti ad ogni intelligenza”, sono “motivi di credibilità” i quali mostrano che l’assenso della fede non è “affatto un cieco moto dello spirito”» (CCC 156).

  In ultima analisi, il miracolo dimostra che Dio ha effettivamente la possibilità di dare ciò che promette agli uomini e in questa luce, umilmente, vanno accolti.

La pagina dei Padri

  L’invidia nemica della misericordia – Sant’Ambrogio: In verità vi dico che nessun profeta è accetto in patria sua” (Lc 4,24). L’invidia non si manifesta mai per metà: dimentica dell’amore tra concittadini, fa diventare motivi di odio anche le naturali ragioni di affetto. Ma con questo esempio, e con queste parole, si vuol indicare che invano tu potresti attendere la grazia della misericordia celeste, se nutri invidia per la virtù degli altri; Dio, infatti, disprezza gli invidiosi e allontana le meraviglie del suo potere da coloro che disprezzano, negli altri, i doni suoi. Le azioni del Signore nella sua carne, sono espressione della sua divinità, e le sue cose invisibili ci vengono mostrate attraverso quelle visibili.

  Non a caso il Signore si scusa di non aver operato in patria i miracoli propri della sua potenza, allo scopo che nessuno di noi pensi che l’amor di patria debba essere considerato cosa di poco conto. Non poteva infatti non amare i suoi concittadini, egli che amava tutti gli uomini: sono stati essi che, con il loro odio, hanno rinunziato a quest’amore per la loro patria. Infatti l’amore “non è invidioso, non si gonfia d’orgoglio” (1Cor 13,4). E, tuttavia, questa patria non è priva dei benefici di Dio: quale miracolo più grande infatti avvenne in essa della nascita di Cristo? Vedi dunque quali danni procura l’odio: a causa di esso vien giudicata indegna la patria, nella quale egli poteva operare come cittadino, dopo che era stata trovata degna di vederlo nascere nel suo seno come Figlio di Dio.

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