Dal libro del profeta Sofonìa (3,14-17) – Il Signore esulterà per te con grida di gioia: Israele, gli uomini, le nazioni si sono corrotti: idolatri e sanguinari opprimono i giusti e stravolgono la giustizia. A motivo di tanta malvagità l’empio andrà incontro al severo giudizio di Dio. Se nel giorno del Signore i padiglioni di Cusàn saranno in preda allo spavento e le tende di Madian si agiteranno (3,7) , il cuore del profeta si aprirà alla gioia a motivo della salvezza che il Signore apporterà a tutti gli uomini di buona volontà. Un’attesa che si compirà con la venuta di Gesù.
Salmo Responsoriale (Is 12,2-6) – Canta ed esulta, perché grande in mezzo a te è il Santo d’Israele: «La via che ci conduce alla salvezza, o carissimi, è Gesù Cristo, il sommo sacerdote delle nostre offerte, il nostro protettore, colui che ci soccorre nella nostra debolezza. È attraverso di lui che noi fissiamo il nostro sguardo nell’alto dei cieli; attraverso di lui contempliamo, come in uno specchio, l’immagine pura e altissima di Dio; per il suo tramite si sono aperti gli occhi del nostro cuore; è grazie a lui che la nostra intelligenza, fino a quel momento miope e ottenebrata, rifiorisce alla sua mirabile luce» (Cle-mente di Roma).
Dalla lettera di san Paolo apostolo ai Filippési (4,4-7) – Il Signore è vicino!: San Paolo non si stanca di esortare i suoi amati Filippesi alla gioia presentandola come preclara virtù cristiana. Poiché la gioia cristiana ha le sue radici nella presenza di Dio nella Chiesa e nella vita di ogni uomo, il credente ha la certezza che nessuna ansia o preoccupazione, nessuna tribolazione o angoscia, potrà separarlo dal suo Signore e sottrarlo «all’ambito di luce, di grazia, di gioia, di pace e di perdono in cui lo ha collocato Dio creatore, amandolo e donandogli il figlio Gesù per la salvezza» (Don Primo Gironi).
Dal Vangelo secondo Luca (3,10-18) – E noi che cosa dobbiamo fa–re?: Il brano lucano è costituito da due parti ben distinte. Nella prima parte Giovanni esorta tre gruppi a comportarsi onestamente, la seconda è una testimonianza resa al Cristo. Luca nel descrivere le future attività del Messia usa il genere letterario dell’apocalittica, cioè quelle immagini e simboli tesi ad illustrare il giudizio di Dio sul mondo e sull’uomo.
Dal Vangelo secondo Luca
In quel tempo, le folle interrogavano Giovanni, dicendo: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva loro: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che cosa dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi, che cosa dobbiamo fare?». Rispose loro: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe». Poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco. Tiene in mano la pala per pulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel suo granaio; ma brucerà la paglia con un fuoco inestinguibile». Con molte altre esortazioni Giovanni evangelizzava il popolo.
Approfondimento
Rallegratevi nel Signore, sempre – Giuseppe Manzoni (Gioia in Schede Bibliche – EDB): Con la nascita di Cristo, le profezie si adempiono e il regno messianico viene inaugurato nella gioia. Il vangelo di Luca ci trasmette in modo particolare quel clima di gioia, che la venuta del Salvatore ha diffuso tra gli uomini. Giovanni Battista esulta di gioia nel seno di Elisabetta (Lc 1,44), la vergine Maria esprime i suoi sentimenti in un inno gioioso, che celebra Dio salvatore degli umili (Lc 1,46-49). La nascita di Gesù viene annunziata ai pastori come «una grande gioia che sarà di tutto il popolo» (Lc 2,10), mentre una moltitudine celeste canta e glorifica Dio (Lc 2,13-14). I motivi di questa gioia sono evidenti: «I miei occhi – dice Simeone – hanno visto la tua salvezza» (Lc 2,30); l’attesa redenzione è ormai imminente nel Cristo (Lc 2,36-38). Giovanni Battista già sente la voce dello sposo, che lo riempie di gioia (Gv 3,28-29); Gesù stesso si manifesta come lo sposo presente, che non permette ai suoi amici di digiunare, poiché è tempo di festa (Lc 5,34-35). Oramai, in Gesù, il Regno di Dio è in mezzo agli uomini: esso è il tesoro per il quale si è disposti a dare tutto gioiosamente (Mt 13,44).
Tutto il vangelo di Gesù è, anche nel nome, un messaggio di gioia, rivolto soprattutto ai poveri, ai peccatori (cfr. le beatitudini).
La gioia per un peccatore che si pente, secondo san Luca, ha una eco perfino in cielo. Le parabole del cap. 15°, che sono una trilogia del perdono e della misericordia divina, ci mostrano la relazione che esiste tra il perdono e la gioia, tra la conversione e la festa: come la pecora o la dramma perduta sono causa di gioia per chi le ritrova, così esulta di gioia il cuore di Dio, quando uno dei suoi figli ritorna a lui.
Tutto il cielo, anzi, si mette in festa per un peccatore che si converte, perché si tratta di un fratello che era morto e ritorna alla vita, era perduto e viene ritrovato (Lc 15,3-7). Ma anche il peccatore che torna sulla retta via sente il cuore riempirsi di gioia per questo suo gesto, come accade per Zaccheo che, cercato da Gesù, discese in fretta dall’albero e «lo accolse pieno di gioia» nella sua casa (Lc 19,6).
Il culmine della gioia messianica, per Gesù come per i suoi discepoli, si ha con la «esaltazione», con la «glorificazione» di Gesù, ossia nella sua passione-resurrezione. La croce stessa diventa, paradossalmente, causa di gioia: Gesù dà la vita per i suoi amici, perché il loro gaudio sia pieno (Gv 15,9.11.13-14); attraverso la croce, Gesù torna al Padre: i discepoli devono rallegrarsi di ciò, se lo amano (Gv 14,28). Gesù assicura i suoi discepoli che la loro tristezza sarà di breve durata e che gusteranno una gioia che nessuno potrà loro strappare (Gv 16,20-24). Ed ecco la letizia di pasqua: le donne «con timore e grande gioia, corsero a dare l’annunzio ai discepoli» (Mt 28,8); costoro, a loro volta, gioiscono vedendo il Signore risorto (Gv 20,19-20), e vedendolo, più tardi, salire al cielo (Lc 24,51-53).
Con la venuta dello Spirito, essi possiedono la sorgente di una gioia che non verrà più meno (At 2,4.11; 13,52; Gv 16,5-7; 14,16-20); nella gioia comincia la difficile missione di testimoni della buona novella in tutto il mondo (At 5,41). La gioia, per il cristiano, è un frutto dello Spirito santo (Gal 5,22) ed una nota caratteristica del Regno di Dio (Rm 14,17); si tratta di una gioia spirituale che viene dalla carità (cfr. 1Cor 13,6), dalla fede (1Pt 1,3-9; Fil 1,25) e dalla preghiera perseverante, poiché Dio risponde alla speranza della preghiera facendo lieti i cuori (cfr. Rm 12,12; 15,13).
Le fonti della gioia cristiana sono tali, che la prova diventa l’occa-sione della gioia più perfetta. Il discepolo di Cristo infatti si rallegra di partecipare alle sofferenze del suo Signore (1Pt 4,13); ad imitazione di lui, preferisce la croce alla gioia immediata (Eb 12,2) e considera «letizia perfetta» subire prove d’ogni genere (Gc 1,2). Il ministero di Paolo è un tipico esempio della gioia nelle tribolazioni e nelle prove (cfr. Col 1,24; 2Cor 6,10).
La gioia nelle prove non solo già prelude a quella degli ultimi tempi «quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della sua potenza» (2Tss 1,7), ma è fin d’ora un possesso ed una caparra della gioia che riempirà il cielo (Ap 18,20; 19,14). Si prepara il giorno delle nozze dell’Agnello, nel quale tutti godranno ed esulteranno, glorificando Dio (Ap 19,7-9). Ci sarà allora la gioia perfetta, già ora pregustata dai figli di Dio, causata dalla comunione col Padre e col Figlio, nello Spirito Santo (1Gv 1,14; 3,1-2.24).
Il cristiano quindi viva sempre lieto, manifestando la sua bontà a tutti gli uomini, perché il Signore è vicino (Fil 4,4-5); lo sposo, appena giungerà, lo introdurrà alla gioiosa festa di nozze (Mt 25,10).
Commento al Vangelo
Che cosa dobbiamo fare? – A questa domanda Giovanni indica la solidarietà. Il suggerire di spartire cibo e vitto ha proprio questa intenzione: farsi solidali con i poveri, con gli indigenti, con coloro che mancano del necessario. È la via della conversione amata e battuta da tutti i profeti (Is 58,6ss; Am 5,21ss). La carità, l’amore verso i più sfortunati, l’elemosina, opere straordinariamente concrete, sono la cartina di tornasole che permette di riconoscere le opere penitenziali, il digiuno, la mortificazione, ecc., come veramente genuine.
Alla folla si accompagnano due categorie che per il loro mestiere erano altamente invise alla popolazione. I pubblicani sono gli esattori delle tasse e ai quei tempi certamente non andavano tanto per il sottile. Pubblicano è sinonimo di peccatore pubblico e, poiché è ritenuto impuro, è inavvicinabile.
I pubblicani sono odiati perché sanguisughe e strozzini; invisi perché collusi con il potere romano. Due nomi tra i tanti, Levi e Zaccheo, ambedue conquistati alla causa del Vangelo dal Cristo (cfr. Mc 2,13-14; Lc 19,1-10).
Giovanni alla domanda – «Che cosa dobbiamo fare?» – risponde con estremo equilibrio: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Quindi imposte giuste, senza calcare la mano. Giovanni Battista non esige il licenziamento che avrebbe permesso loro di ritornare nella sfera dei puri, ma di essere onesti, non esigendo più del dovuto, non estorcendo con prepotenza ciò che non è stabilito. Ciò che conta dinanzi a Dio non è il mestiere, ma la giustizia, la rettitudine.
I soldati, romani o no, erano un’altra categoria ad alto rischio. Odiati da tutti anche se non tutti erano malvagi. Il centurione romano che chiede a Gesù la guarigione del servo era un uomo giusto tanto da attirarsi le simpatie del popolo per le sue opere caritative (Lc 7,2-5). Giovanni indica loro tre strade da battere: non usare del proprio potere per sopraffare il debole, il sottoposto; non rubare e non togliere con la forza quello che potrebbe costituire tutta la sussistenza del vessato; contentarsi della paga. Questa ultima indicazione è una buona nota psicologica: l’esiguità del compenso poteva spingere il soldato ad arrotondare lo stipendio ricorrendo a quelle forme di violenza apertamente condannate dal Battista.
La novità della buona novella giovannea sta nel fatto che il Cielo fa anche ai pubblicani e ai soldati, gli ultimi nella categoria dei salvati, una proposta di conversione: per tutti la venuta di Gesù è una possibilità di cambiare vita, di ritornare ai veri valori della vita, di ritornare a bere alle inesauribili sorgenti della fede.
L’opera straordinaria e la vita ascetica del Battista fa sorgere nel cuore di molti la legittima domanda se fosse lui il Messia. Giovanni non tentenna e nel dare la sua testimonianza al Cristo ne illustra il ministero messianico.
Del Messia vengono messe in evidenza la fortezza (la fortezza è un attributo divino: «È il Signore forte e potente in battaglia» [Sal 24,8]); la sua alta dignità che supera quella di tutti profeti (- non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali -: un compito riservato abitualmente allo schiavo); e il suo particolarissimo ministero di battezzatore: egli battezzerà ‘in Spirito Santo e fuoco’. Un richiamo al perdono dei peccati che il Nuovo Testamento attribuisce al dono dello Spirito Santo.
L’immagine del fuoco nella tradizione biblica ha molti significati: è l’elemento che più di tutti purifica; è il simbolo della santità (Is 6,6-7; 66,15-16. Il giorno di Pentecoste lo Spirito Santo scende sotto forma di lingue di fuoco [cfr. At 2,3]); ma è soprattutto il castigo con il quale saranno puniti gli empi: «[Il Figlio dell’uomo] Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli» (Mt 25,41).
Il Re-Messia, alla sua venuta giudicherà severamente il suo popolo: gli empi saranno bruciati con fuoco inestinguibile, quindi destinati alla Geenna; i giusti saranno introdotti nel suo Regno (Mt 25,31-46). Il Battista «presenta Gesù come ‘il giudizio di Dio’, colui che distingue e determina. In termini semplificati: è Gesù l’elemento discriminante e decisivo, colui per il quale occorre impegnarsi se si vuole raggiungere la salvezza: il rifiuto di Gesù equivale al rifiuto della salvezza» (Mauro Orsatti). In questo modo, la buona novella del Battista, assumendo i tratti di un messaggio di perdono, annuncia l’avvento di una nuova relazione tra l’uomo e Dio che sfocerà nella comunione eterna e nella visione beatifica del volto del Signore.
Riflessione
La pula sarà bruciata con fuoco inestinguibile – Questa ammonizione di Giovanni non lascia scampo agli ottimi alfieri della beatitudine a tutti i costi. Le parole del Battista fanno intendere chiaramente che per l’uomo vi sarà un giudizio inappellabile e dal quale dipende o l’eterna gioia o l’eterna disperazione. Un messaggio evangelico che il Magistero della Chiesa non si stanca di ripetere in tutti i suoi insegnamenti: «In linea con i profeti [cfr. Mt 3,7-12] e Giovanni Battista [cfr. Mc 12,38-40] Gesù ha annunziato nella sua predicazione il Giudizio dell’ultimo Giorno. Allora saranno messi in luce la condotta di ciascuno [cfr. Lc 12,1-3; Gv 3,20-21; Rm 2,16] e il segreto dei cuori [cfr. Mt 11,20-24]. Allora verrà condannata l’incredulità colpevole che non ha tenuto in alcun conto la grazia offerta da Dio. L’atteggia-mento verso il prossimo rivelerà l’accoglienza o il rifiuto della grazia e dell’amore divino [cfr. Mt 5,22; Mt 7,1-5]. Gesù dirà nell’ultimo giorno: “Ogni volta che avete fatto queste cose ad uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” [Mt 25,40]» (CCC 678).
Come il non amore verso i propri simili sarà il capo d’accusa che determinerà senza scampo la condanna, così la carità diventerà l’ultima tavola di salvezza: «L’elemosina salva dalla morte e purifica da ogni peccato» (Tb 12,9) peccati perché «la carità copre una moltitudine di peccati» (1Pt 4,8).
Nel «giorno rovente come un forno» (Ml 3,19) davanti «a Cristo che è la Verità sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio [cfr. Gv 12,49]. Il Giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena: “Tutto il male che fanno i cattivi viene registrato a loro insaputa. Il giorno in cui Dio non tacerà […] egli si volgerà verso i malvagi e dirà loro: “Io avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi. Io, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla terra, li ho costituiti come vostri fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me [S. Agostino]» (CCC 1039).
Giovanni ai suoi interlocutori non chiede saggi ascetici, ma cose molto concrete: la solidarietà, l’onestà, la rettitudine, la giustizia… cioè una vita perfettamente in sintonia con il credo che si professa. Come bene insegna san Giovanni Crisostomo, non saranno i pellegrinaggi, i messaggi celesti, i fioretti e le mille devozioni a salvare l’uomo, ma l’attenzione al Cristo che viene nel povero, nell’indigente, negli ultimi: «Credi che l’amore del prossimo non sia per te obbligatorio, ma libero? Che non sia una legge, ma un consiglio? Anch’io lo desideravo davvero e ne ero convinto: ma mi atterrisce la mano sinistra [del Giudice divino], i capretti, i rimproveri di lui assiso in trono. E vengono giudicati e posti alla sinistra non perché abbiano rapinato, commesso furti sacrileghi o adulteri, o abbiano perpetrato qualche altra azione interdetta, ma perché non hanno avuto cura di Cristo nei bisognosi» (L’amore per i poveri).
La pagina dei Padri
Lo interrogavano anche alcuni soldati… – Sant’Agostino: Quando indossi le armi per combattere, pensa anzitutto che la tua stessa vigoria fisica è un dono di Dio; così facendo non ti passerà neppure per la mente di abusare d’un dono di Dio contro di lui. La parola data, infatti, si deve mantenere anche verso il nemico contro il quale si fa guerra; quanto più dev’essere mantenuta verso l’amico per il quale si combatte! La pace deve essere nella volontà e la guerra solo una necessità, affinché Dio ci liberi dalla necessità e ci conservi nella pace! Infatti non si cerca la pace per provocare la guerra, ma si fa la guerra per ottenere la pace! Anche facendo la guerra sii dunque ispirato dalla pace in modo che, vincendo, tu possa condurre al bene della pace coloro che tu sconfiggi. “Beati i pacificatori” – dice il Signore – “perché saranno chiamati figli di Dio” (Mt 5,9). Ora, se la pace umana è tanto dolce a causa della salvezza temporale dei mortali, quanto più dolce è la pace divina, a causa dell’eterna salvezza degli angeli! Sia pertanto la necessità e non la volontà il motivo per togliere di mezzo il nemico che combatte. Allo stesso modo che si usa la violenza con chi si ribella e resiste, così deve usarsi misericordia con chi è ormai vinto o prigioniero, soprattutto se non c’è da temere, nei suoi riguardi, che turbi la pace.