Liturgia, Novembre

11 Novembre 2018 – XXXII del Tempo Ordinario (B)

Dal primo libro dei Re (17,10-16) – La vedova fece con la sua farina una piccola focaccia e la portò a Elìa: Elìa dopo aver annunciato la grande siccità che doveva punire l’insediamento del culto di Baal (cfr. 1Re 16,32-33) va a soggiornare sulle rive del torrente Cherit. Dopo alcuni giorni, quando «il torrente si seccò, perché non pioveva sulla regione» (1Re 17,1), riceve da Dio l’ordine di recarsi verso Sidone, in una cittadina non ben nota: Za-repta. Qui il profeta Elìa sarà sostentato, fin che durerà la carestia, da una povera vedova giunta all’estremo delle sue risorse. Con tale decisione, il Signore vuole mettere in risalto che le sue vie sono spesso incomprensibili e misteriose sopra tutto quando Egli si serve di poveri mezzi disprezzati e scartati dagli uomini (cfr. 1Cor 1,28).

Dal Salmo 145 (146) – Loda il Signore, anima mia: «Attualmente il Cristo non regna perfettamente nelle sue membra perché i loro cuori sono occupati in parte da pensieri vani… ma quando questo corpo mortale sarà stato rivestito d’immortalità (cfr. 1Cor 15,54) e avrà abbandonato questi pensieri lasciando il mondo, allora il Cristo regnerà perfettamente nei suoi santi e Dio sarà tutto in tutti (1Cor 15,28). La contemplazione del profeta lo porta a porsi, per così dire, alla fine del tempo; e vedendo la fragilità e la deviazione di tutte le cose di questo mondo, non pensa più che a lodare Dio. Questa fine del mondo verrà presto, per ciascuno di noi: verrà nel momento in cui moriremo e lasceremo questo mondo che ci circonda. Volgiamo dunque il nostro desiderio verso quella che sarà la nostra occupazione eterna» (Cassiodoro).

Dalla lettera agli Ebrei (9,24-28) – Cristo si è offerto una volta per tutte per togliere i peccati di molti: Il sacrificio di Cristo è unico (cfr. Eb 7,27) e non ha bisogno di essere rinnovato. Cancellando perfettamente il peccato dell’uomo, l’efficacia del sacrificio di Gesù, unico ed eterno sacerdote, è assoluta. Quindi non sono più necessari altri sacrifici. L’uomo è già riconciliato con Dio, ma non ancora: solo quando Gesù ritornerà «nella sua gloria con tutti i suoi angeli» (Mt 25,31) i credenti godranno in pienezza i frutti della salvezza.

Dal Vangelo secondo Marco (12,38-44) – Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri: Gesù non teme di accusare palesemente di falso e di disonestà gli scribi notoriamente conosciuti come esperti interpreti della Legge. Sedutosi dinanzi al tesoro sembra prendersi un po’ di riposo contemplando la grandezza del tempio, dimora della gloria di Dio, ma non può non soffermarsi sulla ipocrisia di coloro che sfacciatamente si autoproclamano «maestri in Israele» (Gv 3,10). E questa volta lo fa con garbo, quasi in punta di piedi, evidenziando il gesto generoso di una vedova che mette nelle casse del tesoro tutta la sua sussistenza. È un modo spiccio per insegnare ai suoi discepoli la carità, quella delle occasioni ordinarie che non ha come contraccambio gli applausi degli uomini. La nota – due spiccioli, cioè un quadrante -, stando al testo greco, oltre a mettere in evidenza la miseria della donna, al dire del Ricciotti, fa percepire nel vangelo di Marco «uno spiccato sentore di romanità», perché «più frequenti che presso gli altri due Sinottici vi sono impiegati in greco vocaboli latini, come centurio [15,39.44], spiculator [6,27] […]. Né si giustificherebbero se non perché indirizzate a lettori latini, precisazioni come queste: due minuzzoli [leptà] che è un quadrante, in cui si nomina la  moneta romana equivalente alle due greche [12,42]» (Giuseppe Ricciotti, Vita di Gesù Cristo). Questa critica interna del testo darebbe ragione, quindi, a chi vorrebbe che il Vangelo di Marco sia stato scritto a Roma quando infuriava la persecuzione scatenata da Nerone.

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù [nel tempio] diceva alla folla nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa». [Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».]

Approfondimento

La vedova – Le vedove ai tempi di Gesù appartenevano ad una classe sociale posta ai margini della società. Alla mercé di una società poco incline alla carità, erano facilmente esposte alla povertà, a mille angherie e a pericoli di ogni sorta.

La vedova, obbligata a indossare abiti che ne designavano la condizione (cfr. Gen 38,14.19), era priva di ogni diritto anche quello di ereditare dal marito. Non aveva neppure un difensore legale, e quindi era in balia dei giudici iniqui. La parabola del giudice disonesto è molto palese in questo senso (cfr. Lc 18,1-8; Is 1,23; 10,2; 2Sam 14,4ss).

Nonostante tutto la società ebraica imponeva delle regole ben precise per tutelare i diritti delle vedove. Al creditore era vietato di prendere in pegno la veste della vedova (cfr. Dt 24,17), e in Lv 22,13 si legge: «Se la figlia del sacerdote è rimasta vedova o è stata ripudiata e non ha figli, ed è tornata ad abitare da suo padre come quando era giovane, potrà mangiare il cibo del padre».

La legge del levirato (= levir, cognato, che traduce l’ebraico jabam) obbligava la vedova senza figli maschi a maritare il cognato. Il primo figlio veniva attribuito al defunto e riceveva la sua parte di eredità. L’istitu-zione, che era in vigore anche presso gli assiri e gli hittiti, aveva lo scopo di perpetuare la discendenza e di assicurare la stabilità del patrimonio familiare (cfr. Dt 25,5-10). Un’altra norma voleva che nella mietitura del campo il mannello dimenticato era «per il forestiero, per l’orfano e per la vedova» (Dt 24,19).

Comunque, queste pratiche benevole non erano seguite da tutti gli Israeliti, ma lasciate alla generosità degli uomini pii. Con tale compassione si comporterà Booz nei confronti della giovane Rut, nuora di Noemi (cfr. Rut 2,1ss). Tobia era solito dare la terza decima del suo raccolto alle vedove, ai forestieri e agli orfani (cfr. Tb 1,8). E così non era raro che alla generosità dei pochi si contrapponesse la malvagità di coloro che non si vergognavano di predare le vedove (cfr. Gb 24,3; Sap 2,10; Is 10,2). In questo contesto di cattiveria, l’iniquo era paragonato agli idoli pagani considerati incapaci di avere pietà della vedova e di beneficare l’orfano (cfr. Bar 6,37). In contrapposizione con Iahvé onorato dal popolo eletto come «Padre degli orfani e difensore delle vedove» (Sal 68,6).

Da qui l’accorato appello dei profeti a difendere la causa delle vedove (cfr. Is 1,17). Nella predicazione profetica disprezzare una vedova significava attirarsi i castighi di Dio e ciò equivaleva ad essere maledetti (cfr. Dt 27,19; Ger 22,1-5). Di contro soccorrere gli orfani e le vedove sottendeva essere amati e benedetti da Dio: «Se non opprimerete lo straniero, l’orfano e la vedova, se non spargerete sangue innocente in questo luogo e se non seguirete per vostra disgrazia dèi stranieri, io vi farò abitare in questo luogo, nella terra che diedi ai vostri padri da sempre e per sempre» (Ger 7,6-7).

Nei Vangeli, Gesù rimprovera i Farisei di spogliare le case delle vedove (cfr. Mc 12,40) e loda una «povera vedova» che depone nel tesoro del tempio due quattrini, tutta la sua sussistenza (cfr. Mc 12,43-44). San Paolo invita Timòteo ad onorare le vedove (cfr. 1Tm 5,3). Così farà san Giacomo con i suoi lettori: «Religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle sofferenze» (Gc 1,27).

Esisteva un catalogo nel quale venivano iscritte le vedove che la Chiesa assisteva con premura e generosità. L’iscrizione era sottoposta ad alcune condizioni: «Una vedova sia iscritta nel catalogo delle vedove quando abbia non meno di sessant’anni, sia moglie di un solo uomo, sia conosciuta per le sue opere buone: abbia cioè allevato figli, praticato l’ospi-talità, lavato i piedi ai santi, sia venuta in soccorso agli afflitti, abbia esercitato ogni opera di bene» (1Tm 5,9-10). Se Paolo in generale suggeriva alle vedove di restare nello stato vedovile (cfr. 1Cor 7,8) alle più giovani, per comprensibili motivi, consigliava di risposarsi (cfr. 1Tm 5,11-15).

La necessità della assistenza delle vedove farà nascere nella Chiesa il ministero del diaconato (cfr. At 6,5ss). Ma dovranno passare ancora molti anni prima che la rivalutazione della vedova, e della donna in particolare, trovi il suo compimento.

Commento al Vangelo

Guardatevi dagli scribi – La Passione è ormai alle porte e Gesù, pur sapendo che gli restano pochi giorni, non smette di insegnare alla folla che benevolmente lo assedia. Questa volta l’insegnamento ha il greve odore del rimprovero: una reprimenda rivolta agli scribi notoriamente conosciuti come ligi esecutori della Legge.

Gli «uomini del libro» vengono colti in tre momenti della loro vita: fra la gente comune, nelle cerimonie ufficiali, culto e banchetti, e nell’intimo della loro coscienza. Una presentazione cruda puntellata da duri epiteti che mettono in evidenza l’ipocrisia, la malevolenza e la disonestà lucida di uomini che invece avrebbero dovuto essere semplici, luminosi, umili, caritatevoli.

La lunga veste, forse il tallit, il mantello a righe bianche e azzurre ancora oggi in uso, e l’incedere fatto di piccoli passi conferiva ai notabili del paese solennità, importanza, ieraticità, quel contegno nobile di chi guarda dall’alto in basso. I luoghi preferiti naturalmente erano quelli più affollati: le piazze, i mercati, per mettersi in mostra, per pavoneggiarsi e ottenere gli applausi del popolo. Amavano anche i primi seggi nelle sinagoghe perché essendo a volte prossimi alla porta d’ingresso costringevano chi entrava a riverirli. Bramavano i primi posti nei banchetti per ostentare la loro amicizia con il padrone di casa ovviamente ricco e anche influente. A tanta ipocrisia aggiungevano la simulazione di una religiosità sterile, vuota e l’odiosa disonestà di predare le vedove divorando i loro beni. Per questi tali il giudizio è senza appello: «Essi riceveranno una condanna più grave». Riceveranno «molte percosse» perché «pur conoscendo la volontà del padrone» non hanno «disposto o agito secondo la sua volontà» (Lc 12,47).

La folla forse avrà applaudito. Certamente non tutti erano così, ma così erano coloro che si accanivano contro la predicazione e l’insegnamento del Cristo. Marco non registra reazioni, sembra che i contestatori abbiano incassato il colpo e si siano dileguati nelle tenebre dei loro vacui ragionamenti per continuare a complottare contro Gesù.

Sgomberato il campo, ora, Gesù sembra essere bene intenzionato a prendersi un po’ di riposo e si siede di fronte al tesoro.

Il tesoro era un locale posto in un atrio del tempio dove erano collocate tredici cassette destinate a raccogliere le elemosine il cui ricavato doveva servire per il buon funzionamento del tempio e del culto. Erano di ferro e il tintinnio della moneta che scivolava dentro, ai buoni intenditori, dava il reale ammontare delle offerte. Sulle cassette erano poste delle targhette su cui era indicata la destinazione dell’obolo. Per cui a volte stazionava lì un addetto del tempio il cui compito era di indicare, soprattutto a chi non sapeva leggere, la buca dove introdurre la moneta. Poi strillava il valore delle offerte, certamente quelle più consistenti, suscitando consensi di ammirazione. La nota di Marco – Tanti ricchi ne gettavano molte (12,41) – forse è esagerata, ma serve bene a mettere in evidenza l’insegnamento etico del seguito del racconto evangelico.

Tra i tanti paludati, applauditi a scena aperta, si fa spazio una povera vedova che getta nel tesoro «due monetine, che fanno un soldo». E così accade che il suono delle monete e lo strillone, denunciando l’esigua offerta, suscitano tra i presenti brontolii e mugolii di disapprovazione. Il tintinnio, lo strillo e i mugugni non sono sfuggiti nemmeno a Gesù ma con una risonanza nel suo cuore molto, molto diversa. Gesù a questo punto chiama a sé i discepoli che forse si erano allontanati per cicalare con i detrattori della povera donna. Li chiama per insegnare loro come Dio vede, valuta e giudica i gesti degli uomini, a differenza degli umani spesso prigionieri della loro effimera sapienza. Quello che conta agli occhi di Dio è il valore morale del dono non quello commerciale, perché Dio guarda il cuore (cfr. 1Re 16,7). È anche una lezione sulla carità. Quella spicciola, quella di tutti i giorni che non porta lo sporco della bava della superbia.

Ma c’è un altro insegnamento che dovrebbe lasciare insonni tutti i credenti. La vedova, facendo scivolare nel tesoro «tutto quanto aveva per vivere», compie un atto di fede pieno, totale. Dando tutto ha manifestato di fidarsi di Dio e lo ha fatto in un modo molto pratico, lo ha fatto non riservando nulla per sé e il suo futuro. Ha abbandonato tutte le sue sicurezze e si è affidata completamente a Dio sostenuta dalla certezza che il Signore, «Padre dei poveri e difensore delle vedove» (Sal 68,6), non l’a-vrebbe abbandonata. Questo gesto così diventa per la comunità cristiana un serio esame di coscienza: la mia fede è vissuta veramente come adesione totale a Dio? Tale adesione è tanto sconvolgente da impregnare tutto il mio cuore, tutta la mia mente, tutta la mia vita?

Riflessione

Nella sua povertà, vi ha messo tutto – A Zarepta una vedova si fida del profeta Elìa, a Gerusalemme una povera vedova si fida di Dio: entrambe danno tutto quello che avevano. Maestre impareggiabili: non con le parole, ma con la vita testimoniano di credere nella Provvidenza. Per una sua definizione si può ricordare quella di san Giovanni Damasceno: «La provvidenza consiste nella cura esercitata da Dio nei confronti di ciò che esiste. Essa rappresenta, inoltre, quella volontà divina grazie alla quale ogni cosa è retta da un giusto ordinamento» (Esposizione della fede ortodossa, 2,29). E il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La creazione ha la sua propria bontà e perfezione, ma non è uscita dalle mani del Creatore interamente compiuta. È creata “in stato di via” verso una perfezione ultima alla quale Dio l’ha destinata, ma che ancora deve essere raggiunta. Chiamiamo divina Provvidenza le disposizioni per mezzo delle quali Dio conduce la creazione verso questa perfezione. Dio conserva e governa con la sua Provvidenza tutto ciò che ha creato, “essa si estende da un confine all’altro con forza, governa con bontà eccellente ogni cosa” [Sap 8,1]. Infatti “tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi” [Eb 4,13], anche quello che sarà fatto dalla libera azione delle creature» (302).

È Gesù a chiedere ai suoi discepoli un filiale abbandono alla Provvidenza del Padre celeste: «Non preoccupatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? […] Il Padre vostro celeste, infatti, sa che ne avete bisogno. Cercate invece, anzitutto, il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta» (Mt 6,31-33; cfr. Mt 10,29-31).

In questo modo la Provvidenza diventa colonna portante dell’essere cristiani: essa è la porta perfetta che conduce il credente alla comunione personale con Dio e lo spinge ad amarlo come Padre provvidente che si prende cura dei più elementari bisogni dei suoi figli. Una vita cristiana che non crede alla Provvidenza è una vita pagana; se non è animata dalla Provvidenza è una vita atea, cioè senza Dio.

Un uomo che non crede alla Provvidenza crede al caso, al destino… invece di credere che è immagine di Dio crede che è figlio di una scimmia… ma il caso «non esiste… perché il caso è la Provvidenza degli imbecilli, e la Giustizia vuole che gli imbecilli non abbiano Provvidenza» (Léon-Marie Bloy, scrittore, filosofo, cattolico, 1847-1917).

E sempre Bloy, che certamente non era un imbecille, ebbe a scrivere: «Se si fosse capaci di raccogliere in un unico sguardo, come fanno gli an-geli, tutti gli aspetti di un avvenimento e le concordanze o coincidenze, quasi sempre inosservate di un insieme di fatti, se si potesse, a forza di attenzione e di amore, riuscire a tenere insieme tutti i fili sparsi, si finirebbe certamente per intravedere il piano di Dio» (Diario, 28 maggio 1899). Il segreto sta proprio lì, in quel saper cogliere tutti gli aspetti di un avvenimento e purtroppo non è cosa che possano fare gli imbecilli!

La pagina dei Padri

L’offerta della vedova – San Paolino di Nola: Carissimi, non siamo avari del nostro, ma diamo a interesse ciò che ci è stato affidato. Abbiamo ricevuto dei beni, da usare come temporale merce di scambio, non come possesso eterno di cosa privata. Se li riconoscerai come temporaneamente tuoi sulla terra, potrai fartene una ricchezza eterna nei cieli. Se ti ricorderai di quei tali che ricevettero dei talenti dal Signore e che cosa il padre di famiglia diede loro in compenso, capirai quanto sia meglio mettere il danaro alla banca del Signore, perché si moltiplichi; capirai con quanta sterilità di fede, con quanta perdita per il servo inutile, fu conservato quel talento, che fruttò solo un aumento di pena a chi l’aveva nascosto.

Sbrigati, dunque, per meritar di sentir le parole: “Via, servo buono, entra nel gaudio del tuo signore” (Mt 25,21), piuttosto che le altre: “Servo malvagio e pigro ti giudico dalle tue parole” (Lc 19,21); il servo pigro fu gettato in carcere, il suo talento fu dato a chi era già ricco per la moltiplicazione dei suoi crediti, e il Signore sentenziò: “A colui che ha sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche ciò che ha” (Mt 25,29). Ricordiamoci anche di quella vedova che, trascurando se stessa per amor dei poveri, testimone lo stesso Giudice, si privò di tutto il suo cibo: Gli altri hanno dato parte di ciò che loro sovrabbondava, essa, invece più bisognosa forse anche di molti poveri, che aveva solo due spiccioli, ma nell’animo era più ricca di tutti i ricchi, interessata solo dell’eterna mercede, cupida del tesoro celeste, rinunciò a tutto ciò che proviene dalla terra e si riconverte in terra. Diede ciò che aveva, per poter possedere ciò che non aveva ancora visto. Diede cose corruttibili, per procurarsi le incorruttibili. Quella poveretta non disprezzò il criterio di Dio circa la ricompensa futura, e il giudice finale non trascurò il suo gesto e preannunziò la sua sentenza; predicò nel vangelo colei che avrebbe coronato il giorno del giudizio.

 

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