7 Novembre 2018 – Mercoledì, XXXI del Tempo Ordinario – (Fil 2,12-18; Sal 26[27]; Lc 14,25-33) – I Lettura: Il testo della liturgia odierna contiene l’esortazione di Paolo a lavorare per la salvezza secondo la logica della potenza di Dio che opera in essa; con una riflessione conclusiva sulla gioia, che deve riempire l’esistenza cristiana qualunque ne sia lo sbocco: vita o morte. Perché ciò che conta non è la vita o la morte in questo mondo, ma la fedeltà al Vangelo, l’ubbi-dienza, la realizzazione del disegno salvifico di Dio nella conformità della propria esistenza a questo stesso disegno. Vangelo: Gesù indirizza a tutti l’invito a seguirlo. Le esigenze radicali esposte valgono naturalmente per coloro che sono già diventati suoi «discepoli», cioè per tutti coloro che hanno aderito alla comunità cristiana. Per conseguire la salvezza non basta aver fatto il passo iniziale, è necessario corrispondere con serietà e impegno alla chiamata divina, in base ai carismi ricevuti, affrontando anche i sacrifici più gravi.
Chi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo – Dal Vangelo secondo Luca: In quel tempo, una folla numerosa andava con Gesù. Egli si voltò e disse loro: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo. Chi di voi, volendo costruire una torre, non siede prima a calcolare la spesa e a vedere se ha i mezzi per portarla a termine? Per evitare che, se getta le fondamenta e non è in grado di finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo: “Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro”. Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila? Se no, mentre l’altro è ancora lontano, gli manda dei messaggeri per chiedere pace. Così chiunque di voi non rinuncia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».
Riflessione: Chi non porta la propria croce… – Rivolgendosi alla «molta gente» che «andava con lui», Gesù pone come condizione il distacco dagli affetti e dai legami parentali, l’obbligo di seguirlo per l’irta salita del Calvario e la rinunzia ai beni. Quindi, per essere veramente annoverati tra le fila dei suoi discepoli, è necessario anzitutto compiere la scelta radicale di anteporre lui ad ogni persona o cosa, preferendolo anche ai familiari e alle persone più care. Un enorme sacrificio se pensiamo che ai tempi di Gesù il cardine di ogni relazione o convivenza sociale poggiava sull’isti-tuzione della famiglia e del clan, una sorta di famiglia allargata… Gesù non domanda odio, ma il distacco completo e immediato (cfr. Lc 9,57-62) e non intende infrangere la Legge di Dio (il quarto comandamento), ma vuole orientare l’uomo a scegliere i veri valori che contano, in questo caso il vero valore che conta è Dio. Ad una scelta orizzontale, parenti, genitori, figli, Gesù impone al discepolo una scelta verticale: gli affetti familiari praticamente devono essere gradini che devono slanciare l’uomo verso Dio. La seconda condizione è portare la propria croce… La croce è quella di Gesù senza orpelli aggiuntivi, senza interpretazioni metaforiche. È il ruvido legno con annessi e connessi: persecuzioni, ingiurie, torture, delazioni, calunnie, odio gratuito… “quegli avvenimenti voluti o permessi da Dio, che ci fanno violenza, ci umiliano, ci causano dolore e pena e ci mettono alla prova in diverse maniere. Portare la croce significherà quindi entrare nelle intenzioni di Dio, che vede in questi avvenimenti degli strumenti della nostra salvezza; accettare o ricercare queste contrarietà come mezzi per far progredire il regno di Dio in noi e intorno a noi. Perché la croce sia meritoria per il Regno dei cieli deve essere accettata per amore di Dio; per volere seguire Cristo, bisogna volere tutto ciò che esige il suo amore” (Emilio Spinghetti). Tanto richiede la vita cristiana: all’adorazione e all’amore è necessario aggiungere la riparazione e il patire. Quest’ultimo accettato volontariamente come stile di vita e non con entusiasmo effimero, con slancio di un’ora o di una settimana, ma «ogni giorno», senza sconti, senza respiro, senza riposo, fino alla fine!
La Parola di Dio commentata dal Magistero della Chiesa: Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre… – Giovanni Paolo II (Udienza Generale, 28 Ottobre 1987): Dinanzi a queste espressioni di Gesù non si può non riflettere sull’altezza e arduità della vocazione cristiana. Senza dubbio le forme concrete di sequela di Cristo sono da lui stesso graduate secondo le condizioni, le possibilità, le missioni, i carismi delle persone e dei ceti. Le parole di Gesù, come dice egli stesso, sono “spirito e vita” (cfr. Gv 6,63), e non si può pretendere di materializzarle in modo identico per tutti. Ma secondo san Tommaso d’Aquino la richiesta evangelica di rinunce eroiche, come quelle dei consigli evangelici di povertà, castità e rinnegamento di sé per seguire Gesù – e lo stesso si può dire dell’oblazione di sé al martirio piuttosto che tradire la fede e la sequela di Cristo – impegna tutti “secundum praeparationem animi” (cfr. S. Thomae, Summa Theologiae; II-II, q. 184, a. 7, ad 1), ossia quanto a disponibilità dello spirito a compiere ciò che è richiesto qualora vi si fosse chiamati, e quindi comportano per tutti un distacco interiore, un’oblatività, un’autodo-nazione a Cristo, senza cui non vi è un vero spirito evangelico.
Un cristianesimo facile – Paolo VI (Udienza Generale, 25 Giugno 1969): Un cristianesimo facile: questa Ci sembra una delle aspirazioni più ovvie e più diffuse, dopo il Concilio. Facilità: la parola è seducente; ed è anche, in un certo senso, accettabile, ma può essere ambigua. Può costituire una bellissima apologia della vita cristiana, a intenderla come si deve; e potrebbe essere un travisamento, una concezione di comodo, un «minimismo» fatale. Bisogna fare attenzione. Che il messaggio cristiano si presenti nella sua origine, nella sua essenza, nella intenzione salvatrice, nel disegno misericordioso che tutto lo pervade, come facile, felice, accettevole e comportabile, è fuori dubbio. È una delle più sicure e confortanti certezze della nostra religione; sì, ben compreso, il cristianesimo è facile. Bisogna pensarlo così, presentarlo così, viverlo così. Lo ha detto Gesù stesso: «Il mio giogo è soave ed il mio peso è leggero» (Mt 11,30).
La Parola di Dio commentata dai Padri della Chiesa: Amore di Dio prima dell’inclinazione naturale – «Dice Gesù: “In verità vi dico: non c’è nessuno che avrà abbandonato casa, o fratelli, o sorelle, o madre, o padre, o figli, o campi per me e per il Vangelo, che non riceva il centuplo” [Mc 10,29]. E non vi turbino queste parole né quanto, con accenti ancor più duri, è scritto altrove: “Chi non odia suo padre e sua madre ed i suoi figli, persino anzi la sua stessa vita, non potrà divenire un mio seguace” [Lc 14,26]. Non ci turbino giacché il Dio della pace, colui che ingiunge di amare anche i propri nemici, non ci invita certo all’odio ed alla separazione dalle persone a noi più care. In realtà, se occorre amare i propri nemici, risulta chiaro che, risalendo da essi, è necessario amare anche coloro che ci sono più prossimi per vincoli di sangue. Se, al contrario, occorre nutrire odio nei confronti di coloro che ci sono vicini per legami di parentela, il ragionamento che ne consegue, in tal caso, insegnerebbe a respingere ancor di più i propri nemici. Cosicché i due discorsi si confuterebbero a vicenda. Essi, invece, non si confutano affatto, giacché con lo stesso stato d’animo e la stessa disposizione e la stessa limitazione nutrirebbe odio verso il padre ed amore nei confronti del nemico chi non si vendicasse del nemico e non onorasse il padre più di Cristo. Infatti, con il primo discorso [in cui vien detto di amare il proprio nemico], Cristo vieta di odiarlo e di fargli del male nel secondo, invece [in cui si dice di odiare il proprio padre], egli raccomanda di guardarsi da quel falso rispetto nei confronti dei propri cari allorché questi si mostrino d’im-pedimento alla salvezza. Nel caso in cui, perciò, qualcuno avesse un padre od un figlio od un fratello empio e d’ostacolo per la propria fede e d’impedimento nella prospettiva della vita celeste, non rimanga unito a lui né condivida i suoi pensieri, ma, a motivo dell’inimicizia dello spirito, sciolga pure la parentela» (Clemente d’Alessandria).
Silenzio / Preghiera / La tua traccia: Costruire una torre – «Mi piaceva salire su una delle sue torri, per far contemplare da vicino a quei ragazzi la selva di guglie, un autentico ricamo di pietra, frutto di un lavoro paziente, faticoso. In quelle conversazioni facevo notare che tutta quella meraviglia non era visibile dal basso. E, per materializzare ciò che tanto spesso avevo loro spiegato, commentavo: questo è il lavoro di Dio, l’opera di Dio!: portare a termine il lavoro professionale con perfezione, in bellezza, con la grazia di questi delicati merletti di pietra. Capivano, davanti a una realtà così palese, che tutto quello era preghiera, un bellissimo dialogo con il Signore. Coloro che spesero le loro forze in quel lavoro, sapevano perfettamente che dalle strade della città nessuno si sarebbe reso conto del loro sforzo: era soltanto per il Signore. Capisci adesso come la vocazione professionale può avvicinare a Dio? Fa’ anche tu come quegli scalpellini, e anche il tuo lavoro sarà operatio Dei, un lavoro umano con viscere e fisionomia divine. Convinti che Dio è dappertutto, noi coltiviamo i campi lodando il Signore, solchiamo i mari ed esercitiamo ogni altro mestiere cantando le sue misericordie [Clemente Alessandrino, Stromata, 7,7]. In questo modo restiamo uniti a Dio in ogni momento. Anche se vi trovate isolati, lontani dal vostro ambiente abituale – come quei ragazzi in trincea -, vivrete messi nel Signore grazie al lavoro personale, generoso e continuo, che saprete trasformare in orazione, perché lo incomincerete e lo concluderete alla presenza di Dio Padre, di Dio Figlio e di Dio Spirito Santo. Ma non dimenticate che siete anche alla presenza degli uomini, i quali attendono da voi – da te! – una testimonianza cristiana. Pertanto, nel lavoro professionale, nelle cose umane, dobbiamo agire in modo tale da non doverci vergognare se ci vedesse all’ope-ra chi ci conosce e ci ama, chi potrebbe arrossire di noi. Se vi comporterete secondo lo spirito che cerco di insegnarvi, non disgusterete chi ha posto fiducia in voi, e voi stessi non dovrete arrossire: non vi succederà come all’uomo della parabola che si mise a costruire una torre: gettate le fondamenta e non potendo finire il lavoro, i passanti cominciano a deriderlo, dicendo: «Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro» [cfr. Lc 14,29-30]. Vi assicuro che, se non perdete il punto di mira soprannaturale, coronerete il vostro lavoro, porterete a termine la vostra cattedrale, fino all’ultima pietra» (Josemaría Escrivá de Balaguer, Amici di Dio, 65-66).
Santo del giorno: 7 Novembre – Sant’Ernesto di Zwiefalten, Abate: “Nel 1140 era abate del monastero fondato a Zwiefalten (Wùrttemberg) nel 1089 dai conti Kuno e Liutold von Achalm, ma nel 1146 diede le dimissioni e si unì all’e-sercito crociato del re Corrado III. Sulla sua attività come abate si sa poco, meno ancora sulla sua fine. Secondo la leggenda cadde nelle mani dei Saraceni e fu crudelmente martirizzato; viene venerato, infatti, nel suo monastero di Zwiefalten come santo martire. La sua festa è celebrata il 7 novembre. Talvolta fu confuso con l’omonimo prevosto di Neresheim, il quale prese parte alla prima crociata. Nella chiesa abbaziale di Zwiefalten si conserva sull’altare di S. Stefano una statua di Ernesto, raffigurato anche in due pitture” (Rudolf Henggeler).
Preghiamo: Dio onnipotente e misericordioso, tu solo puoi dare ai tuoi fedeli il dono di servirti in modo lodevole e degno; fa’ che camminiamo senza ostacoli verso i beni da te promessi. Per il nostro Signore Gesù Cristo…