27 Ottobre 2018 – Sabato, XXIX del Tempo Ordinario – (Ef 4,7-16; Sal 121[122]; Lc 13,1-9) – I Lettura: La santità cristiana non consiste in una giustizia propria, il Vangelo non è una lista di precetti che se osservati in maniera corretta ci promuove per il Paradiso. Il Vangelo è una Persona alla quale aderire perché ci comunichi la Vita divina. Di questa Vita noi facciamo già esperienza su questa terra grazie ai doni della Grazia che ci raggiunge attraverso i sacramenti e il ministero della Chiesa. Ma per raggiungere la mèta e la pienezza della Vita vera bisogna rimanere fedeli alla Verità di Cristo. La Verità, infatti, non è nostra, ma ci è comunicata da Colui che è disceso dal cielo. Solo uniti a Lui avremo fiducia di raggiungere la mèta tanto desiderata. Vangelo: Il pio Israelita aspettava su questa terra la ricompensa alle sue opere buone, e la ricchezza o la salute erano il segno della benevolenza divina che egli conquistava grazie alla propria giustizia. Di conseguenza chiunque fosse raggiunto dalle sventure veniva giudicato un peccatore. Gesù demolisce questa concezione ricorrendo all’immagine del fico che non porta frutto: da sé non è in grado di portarne. Così tutto il popolo di Israele se non si apre alla grazia offertagli da Dio in Cristo non sarà in grado di portare frutto.
Se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo – Dal Vangelo secondo Luca: In quel tempo, si presentarono alcuni a riferire a Gesù il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
Riflessione: «Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai». Da una parte, la parabola riportata oggi nel Vangelo mette in luce la misericordia di Dio, la sua pazienza nell’attendere da noi un buon frutto; dall’altra parte, però, sono chiare anche la nostre responsabilità: la pazienza divina non può indurci alla inoperosità o farci adagiare nella infruttuosità. San Paolo lo esprime con fermezza: «Non vi fate illusioni; non ci si può prendere gioco di Dio» (Gal 6,7). Anche san Pietro, così scrive a proposito della venuta del Signore e del suo conseguente giudizio su noi: «Il Signore usa pazienza verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi» (2Pt 3,9). Qui ritroviamo descritta la condotta del vignaiuolo della parabola: è Cristo che dalla Croce si mette tra noi e la divina giustizia, così come il vignaiuolo si mise tra il padrone e l’albero di fichi, e invoca misericordia e pazienza, nella speranza che possiamo destarci dallo sterile sonno e iniziare a portare frutti di vita eterna. Ed eccolo all’opera, il divino Vignaiuolo, ci zappa intorno, ci pota, ci innaffia col suo amore… nel libro dell’Apocalisse dirà: «Conosco le tue opere; ti si crede vivo, e sei morto. Sii vigilante, rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire, perché non ho trovato perfette le tue opere davanti al mio Dio. Ecco, io sto alla porta e busso» (Ap 3,1b-2.20). Ci si crede vivi, perché non siamo secchi; ci si crede vivi in quanto pieni di belle foglie; ci si crede vivi perché la linfa della grazia divina continua a scorrere nella nostra anima… ma se non abbiamo in noi anche i frutti non siamo utili né a noi, né agli altri e quindi nemmeno a Dio. Ecco perché, nello stesso brano dell’Apocalisse Gesù, il Testimone fedele e veritiero, afferma: «Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: “Sono ricco, mi sono arricchito, non ho bisogno di nulla. Ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo”» (Ap 3,15-17). Parole forti, che dovrebbero indurci a verificare se davvero in noi sono presenti solo le foglie delle devozioni esterne o se sono presenti quei frutti che saziano di delizie e virtù Dio e il prossimo.
La Parola di Dio commentata dal Magistero della Chiesa: Gerusalemme è costruita come… – Benedetto XVI (Udienza Generale, 12 ottobre 2005): «Città salda e compatta» (v. 3), simbolo di sicurezza e di stabilità, Gerusalemme è il cuore dell’unità delle dodici tribù di Israele, che convergono verso di essa come centro della loro fede e del loro culto. Là, infatti, esse ascendono «per lodare il nome del Signore» (v. 4), nel luogo che la «legge di Israele» (Dt 12,13-14; 16,16) ha stabilito quale unico santuario legittimo e perfetto. A Gerusalemme c’è un’altra realtà rilevante, anch’es-sa segno della presenza di Dio in Israele: sono «i seggi della casa di Davide» (cfr. Sal 121,5), governa, cioè, la dinastia davidica, espressione dell’azione divina nella storia, che sarebbe approdata al Messia (2Sam 7,8-16). I «seggi della casa di Davide» vengono chiamati nel contempo «seggi del giudizio» (cfr. Sal 121,5), perché il re era anche il giudice supremo. Così Gerusalemme, capitale politica, era anche la sede giudiziaria più alta, ove si risolvevano in ultima istanza le controversie: in tal modo, uscendo da Sion, i pellegrini ebrei ritornavano nei loro villaggi più giusti e pacificati. Il Salmo ha tracciato, così, un ritratto ideale della città santa nella sua funzione religiosa e sociale, mostrando che la religione biblica non è astratta né intimistica, ma è fermento di giustizia e di solidarietà. Alla comunione con Dio segue necessariamente quella dei fratelli tra loro.
… ma se non vi convertite – Giovanni Paolo II (Omelia, 22 Marzo 1992): Nel brano evangelico di Luca, vediamo come Gesù prenda lo spunto dalla cronaca del tempo per istruire il popolo e per predicare la conversione: si tratta della feroce uccisione di un gruppo di Galilei e dell’improvviso crollo di una torre che aveva travolto 18 persone. Circa il primo episodio dice Gesù: “Credete che questi Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto una tale sorte?” (Lc 13,2). Con queste parole intende eliminare il pregiudizio che una disgrazia sia necessariamente una punizione del peccato. Riguardo al secondo episodio Gesù ammonisce: “Se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,5). Qui il discorso è più articolato: Gesù vuole far riflettere sul fatto che una catastrofe ha anche un significato simbolico; è un richiamo a verificare il proprio stato di coscienza. Quando si è peccatori incalliti, si va incontro a una tragica sorte, più tragica degli eventi citati, perché il destino ultimo di ciascuno riguarda l’eternità. Ma, pur nella severità dell’ammonimento, Gesù è longanime, pieno di amore e di misericordia. Lo si vede nella parabola del fico che non dà frutto. Dopo tre anni, il padrone ordina di tagliarlo. Ma il vignaiolo implora una proroga. Quel vignaiolo è Gesù, il quale, nel suo grande amore, ci offre ancora tempo per ravvederci, per convertirci e vivere da veri cristiani.
La parabola del fico infruttuoso – Giovanni Paolo II (Omelia, 26 febbraio 1989): Quando il padrone vi cerca frutti e non li trova, si decide a tagliarlo. Tuttavia il vignaiolo chiede: “Padrone lascialo ancora quest’anno, finché io gli zappi attorno e vi metta il concime e vedremo se porterà frutto per l’avvenire” (Lc 13,8-9). Con quale delicatezza ci ammonisce Cristo in questa sua parabola! In modo delicato, ma insieme molto categorico: se il fico non porterà frutti per l’avvenire, lo taglierai (cfr. Lc 13,9) … Cristo vuole fecondare le nostre anime perché portiamo i frutti che Dio aspetta.
La Parola di Dio commentata dai Padri della Chiesa: La pianta, che non rende e non fa rendere, occupa inutilmente il terreno – «Con gran timore si deve ascoltare ciò che vien detto dell’albero che non fa frutto: “Taglialo; perché dovrebbe continuare ad occupare il terreno?” [Lc 13,7]. Ognuno, a suo modo, se non fa opere buone, dal momento che occupa dello spazio nella vita presente, è un albero che occupa inutilmente il terreno, perché, nel posto ove sta lui, impedisce che ci si metta a lavorare un altro. Ma c’è di peggio, ed è che i potenti di questo mondo, se non producono nessun bene, non lo fanno fare neanche a coloro che dipendono da loro, perché il loro esempio agisce sui dipendenti come un’ombra stimolatrice di perversità. Al di sopra c’è un albero infruttuoso e sotto la terra rimane sterile. Al di sopra s’infittisce l’ombra dell’albero infruttuoso e i raggi del sole non riescono a raggiungere la terra, perché quando i dipendenti di un padrone perverso vedono i suoi cattivi esempi, anch’essi, rimanendo privi della luce della verità, restano infruttuosi; soffocati dall’ombra non ricevono il calore del sole e restano freddi, senza il calore di Dio. Ma il pensiero di questo qualsivoglia potente non è più oggetto diretto delle cure di Dio. Dopo, infatti, ch’egli ha perduto se stesso, la domanda è soltanto perché debba far pressione anche sugli altri. Perciò il contadino si domanda: “Perché dovrebbe continuare ad occupare il terreno?”. Occupa il terreno, chi crea difficoltà alle menti altrui, occupa il terreno, chi non produce buone opere nell’ufficio che tiene» (Gregorio Magno).
Silenzio / Preghiera / La tua traccia: La santità o l’empietà dell’uomo, secondo un comune sentire, era rivelata sopra tutto dal come moriva. Ma l’insegnamento di Gesù supera questo modo di pensare, infatti non sempre è da cercare un nesso diretto tra colpa e morte, tra peccato e infortunio. Tali fatti di violenza sono invece chiari appelli alla conversione per non andare incontro ad una morte ancora più terribile, quella che porta all’eterna separazione da Dio. La parabola del fico sterile è un chiaro riferimento alla pazienza di Dio, ma potrebbe alludere al ritardo del giudizio finale di Dio e all’importanza di prepararvisi. L’immagine del fico infruttuoso era abbastanza nota e ricorreva spesso nella predicazione profetica quando si voleva denunciare l’infedeltà del popolo di Dio (cfr. Ger 8,13; Mi 7,1; Os 9,16). Nel brano lucano però si fa cenno anche alla vigna e potrebbe alludere alla pazienza di Dio (cfr. Is 5,1-7). Due rimandi non casuali e con i quali si vogliono sfatare due equivoci: «quello di chi pensa che ormai è troppo tardi e che la pazienza di Dio si è logorata nell’attesa, e quello di chi pensa che c’è sempre tempo e che la pazienza di Dio è senza limiti. La risposta è un’altra: Dio è certamente paziente, ma noi non possiamo programmare o fissare scadenze alla sua pazienza» (C. Ghidelli).
Santo del giorno: 27 Ottobre – Sant’Evaristo, Papa e martire: “Mentre del suo predecessore Clemente conosciamo la celebre lettera ai cristiani di Corinto, di Evaristo nulla è giunto. Tutto ciò che si sa è nel Liber Pontificalis e negli scritti di Ireneo ed Eusebio: sembra sia stato un greco di Antiochia nato a Betlemme e divenuto il quarto o forse il quinto successore di Pietro intorno all’anno 100. Governò per 9 anni. Leggendarie sono considerate la notizie che sia morto martire, che sia sepolto presso San Pietro e che abbia suddiviso Roma in 25 parrocchie e istituito 7 diaconi per assisterlo nella liturgia, come testimoni della sua ortodossia e come «stenografi» delle sue prediche. I resoconti, in ogni caso, non ci sono giunti” (Avvenire).
Preghiamo: Dio onnipotente ed eterno, crea in noi un cuore generoso e fedele, perché possiamo sempre servirti con lealtà e purezza di spirito. Per il nostro Signore Gesù Cristo…