Dal libro del profeta Geremìa (31,7-9) – Riporterò tra le consolazioni il cie–co e lo zoppo: Una marcia trionfale, quella del nuovo èsodo descritto da Geremìa, sostenuta da persone deboli ad indicare la natura miracolosa dell’evento. Questo popolo è chiamato il resto di Israele e rappresenta quella parte del popolo sopravvissuta durante gli eventi che portarono alla deportazione del 721 a.C. e purificata durante l’esilio. Il Signore li riporta dalle terre del Settentrione, dall’Assiria, attraverso una via diritta ad una terra ricca di acqua, a differenza del primo èsodo dove dovettero attraversare il deserto. Dalla desolazione alla letizia, questo il quadro con il quale Geremìa annuncia l’intervento di Jahvè in favore del suo amato popolo.
Dal Salmo 125 (126) – Grandi cose ha fatto il Signore per noi: «Per la messe materiale come per quella spirituale sono necessarie fatiche e sudori; è per questo che Dio rende stretta e angusta la via che conduce alla virtù (cfr. Mt 7,14). E come l’acqua è necessaria per far crescere la messe, così le lacrime servono alla virtù; come l’aratro è necessario per la terra, così giovano all’anima fedele le tentazioni e le afflizioni che la lacerano. Il profeta quindi vuol dire che dobbiamo ringraziare Dio non solo per il ritorno ma anche per la prigionia. E come il seminatore non si rattrista ma pensa alla messe futura, quando siamo nell’afflizione non tormentiamoci ma pensiamo che ciò ci procurerà un gran bene» (G. Crisostomo).
Dalla lettera agli Ebrei (5,1-6) – Tu sei sacerdote per sempre, secondo l’or–dine di Melchìsedek: Il sacerdozio di Cristo è di gran lunga superiore a quello della prima Alleanza: Egli, infatti, non lo eredita per discendenza come i figli di Aronne. La nuova economia della Salvezza ha un sommo sacerdote che è il Figlio di Dio; il suo è un sacerdozio eterno perché è immortale, e non deve offrire tutti i giorni sangue di animali perché offrì se stesso in un sacrificio perfetto una volta per sempre. Egli non deve entrare una volta l’anno nel Santo dei Santi, ma è sempre seduto accanto al trono di Dio ed intercede per noi.
Dal Vangelo secondo Marco (10,46-52) – Rabbunì, che io veda di nuovo!: Con l’episodio della guarigione di Bartimèo si conclude la sezione dedicata alla sequela di Gesù. La guarigione del figlio di Timeo segna anche una svolta: Gesù non cerca più di mantenere il segreto della sua identità. Accetta di essere chiamato Figlio di Davide e in seguito all’ingresso in Gerusalemme si designerà apertamente come il Messia. Gesù è detto anche Nazareno ed è chiamato con il titolo di Rabbunì. Il primo – Nazarenos – figura solo in Marco, mentre il secondo titolo è l’equivalente aramaico dell’ebraico rabbi. È usato solo qui e in Gv 20,16. Il significato potrebbe essere mio Maestro o Maestro (cfr. Gv 20,16). La sequela del cieco Bartimèo diventa il prototipo di ogni discepolato: solo la luce della grazia riesce a far sentire all’uomo la presenza di Gesù.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, mentre Gesù partiva da Gèrico insieme ai suoi discepoli e a molta folla, il figlio di Timèo, Bartimèo, che era cieco, sedeva lungo la strada a mendicare. Sentendo che era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: «Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!». Molti lo rimproveravano perché tacesse, ma egli gridava ancora più forte: «Figlio di Davide, abbi pietà di me!». Gesù si fermò e disse: «Chiamatelo!». Chiamarono il cieco, dicendogli: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!». Egli, gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù. Allora Gesù gli disse: «Che cosa vuoi che io faccia per te?». E il cieco gli rispose: «Rabbunì, che io veda di nuovo!». E Gesù gli disse: «Va’, la tua fede ti ha salvato». E subito vide di nuovo e lo seguiva lungo la strada.
Approfondimento
Il sacerdozio di Cristo – Bruno Ramazzotti (Sacerdote, Schede Bibliche – EDB): Diversi testi nel Nuovo Testamento danno rilievo all’ufficio di sacerdote di Gesù, valorizzando in relazione alla sua persona, alla sua opera e ai suoi gesti redentori un linguaggio di tipo sacerdotale e sacrificale. Così talvolta si descrive, specie nei sinottici e negli scritti apostolici, l’attività del messia con formule che ricalcano gli annunci di espiazione per gli uomini (Mc 10,45; 9,31s.; cfr. Gal 2,20; Rm 4,25; Ef 5,2; 1Tm 2,6). Alla qualità di sacerdote si accenna anche quando si fa menzione del sangue da lui versato per redimerci e purificarci dai nostri peccati (cfr. Rm 3,24 s.; Ef 1,7; 1Pt 1,18 s.).
Un probabile riferimento al sacerdozio è implicito nei passi dove Gesù si applica e dove a lui è applicato il Sal 110, nel quale il figlio e signore di David è apertamente esaltato come sacerdote al modo di Melchisedek (cfr. Mt 22,44; Mc 12,35ss.; At 2,34; 1Cor 15,25s.; Eb 1,13; 10,12 s.).
Un riferimento al carattere sacerdotale di Gesù può essere visto anche nell’appellativo di «santo di Dio» (Mc 1,24; 1,35; cfr. anche At 3,14; Gv 6,69), che lo presenta come persona consacrata e dedicata al servizio e al culto di Dio, a somiglianza dei santi angeli (cfr. Lc 9,26; At 10,22; Ap 14,10). In questo contesto, si può intendere anche la spiegazione del nome di Gesù, che è presentato come colui che è destinato a «purificare» il suo popolo dai peccati (Mt 1,20 s.).
La qualità di sacerdote del Cristo è rimarcata da Giovanni, quando presenta Gesù come il nuovo tabernacolo, il nuovo tempio, nel quale si compie il culto della nuova alleanza (cfr. Gv 1,14; 2,19-21) e si rivela la gloria di Dio (Gv 1,14-18); quando rammenta che Gesù è colui che porta e toglie il peccato del mondo (Gv 1,29) e attraverso il dono della sua vita dà la vita al mondo (Gv 3,13-17); quando ancora, nell’ultimo giorno della festa dei tabernacoli, in connessione con il rito compiuto dal sacerdote che portava l’acqua dalla vasca di Siloe al tempio, Gesù si descrive come colui che offre agli uomini la vera acqua viva dello Spirito attraverso la morte seguita dalla risurrezione (Gv 7,37 ss.).
Il carattere sacerdotale del Cristo è suggerito anche quando si sottolinea che egli, messo a morte, era rivestito di una «tunica senza cuciture» (Gv 19,23), simile a quella del sommo sacerdote (cfr. Es 28,4; 29,5), che non poteva essere né divisa né stracciata (cfr. Lv 21,10).
Questa funzione è ribadita da Giovanni, al c. 17 dove precisa che Gesù svolge un’attività sacerdotale in quanto intercede a vantaggio di tutti i credenti nel suo nome (Gv 17,9.20; cfr. Eb 7,25; Is 53,12) e in quanto compie l’oblazione della sua vita per gli uomini (Gv 17,17 ss.).
Ma più marcato risalto ha la funzione sacerdotale di Gesù nello scritto agli Ebrei. Con frequenza vi ricorrono gli appellativi di «sacerdote» (hie-réus, cfr. Eb 7,11.15) e di «sommo sacerdote» (archieréus, cfr. 2,17; 5,6; 6,20; 7,26; 10,21: hieréus mégas). È ripresa qui la terminologia sacerdotale, impiegata altrove (cfr. 9,28: la morte nella linea del sacrificio del Servo del Signore; 9,1-14: morte-sacrificio di espiazione; 9,18-25: morte-sacrificio di alleanza).
Nella lettera si incontra un aperto discorso sul ministero sacerdotale (leiturgia) del Cristo con riferimento alla sua morte, grazie alla quale diventa mediatore di un più perfetto patto (Eb 8,6; 9,15) e si asside alla destra del Padre nel tabernacolo celeste: «Noi abbiamo un sommo sacerdote così grande che si è assiso alla destra del trono della maestà nei cieli, ministro del santuario e del vero tabernacolo che Dio, e non un uomo, ha costruito» (Eb 8,1-2).
La lettera mette in evidenza le doti del vero sacerdote (funzione mediatrice e solidarietà con gli uomini; vocazione divina; oblazione del sacrificio: cfr. 5,1-10) e mostra che sono tutte presenti in grado eminente in Gesù: egli è mediatore tra Dio e gli uomini, in quanto figlio di Dio (1,1-12) e vero uomo (4,15); è provvisto di una vocazione (5,5s.; 7,20 ss.); offre un sacrificio più perfetto e più efficace di quelli antichi (7,26-27; 9-10).
Commento al Vangelo
Che vuoi che io ti faccia – Gerico è una città della Cisgiordania, posta in prossimità del fiume Giordano. Considerata la più antica città fortificata al mondo, Gerico evoca lutti, guerre e prodigi operati da Dio per la sua conquista. Basti pensare alla sua espugnazione miracolosa da parte di Giosuè quando Israele, dopo l’uscita «a mano alzata dall’Egitto» (Es 14,8), incominciò a conquistare la terra promessa (cfr. Gs 6,1-16).
Di Bartimèo, figlio di Timèo, non sappiamo se era cieco dalla nascita, ma il fatto che Marco ne fornisca il nome potrebbe significare che probabilmente era conosciuto nell’ambiente della primitiva comunità cristiana. In ogni caso, se era cieco non era sordo e forse si era appostato in quel luogo di proposito in attesa del passaggio di Gesù.
Il titolo Figlio di Davide è un titolo messianico, ma non è facile intuire che eco avesse sulla bocca e nel cuore di Bartimèo. Con questo grido di fede sembra che il segreto messianico, gelosamente custodito da Marco, si sia ora dileguato.
«Finora nel Vangelo di Marco le proclamazioni messianiche ad alte grida erano state quelle dei demòni e Gesù ha cercato di tacitarle. Qui per la prima volta, è un uomo che grida a tutti la messianità di Cristo: un cieco che lo ha riconosciuto interiormente per grazia divina; e il Maestro non lo ammonisce, lascia che gridi più forte, anzi lo invita a mettersi accanto a lui al centro della folla, quasi a offrirgli una migliore opportunità a testimoniarlo» (P. Gaetano Savoca, s.j.).
In ogni caso, il grido del figlio di Timèo era un appello di aiuto. Essere guariti dalla cecità non stava a significare soltanto la liberazione dalla schiavitù della mendicità, ma un reale ritorno alla vita assaporandone tutti i colori. I soliti tetragoni tutori dell’ordine cercano di farlo tacere, ma il cieco consapevole della posta in gioco non si fa intimorire ed alza la voce gridando più forte. Gesù si ferma e ordina in modo perentorio di chiamarlo. Solo ora i guardiani dell’ordine, all’imprevisto annuncio messianico di un cieco, comprendono la vera identità di Gesù e sulle loro labbra finalmente fiorisce una parola di speranza: «Coraggio! Alzati, ti chiama».
In tre mosse, sottolineate da tre verbi di movimento, gettato via … balzò … venne, in modo repentino il cieco si mette alla presenza del Figlio di Davide.
Gesù prende l’iniziativa anche se è scontata la richiesta. Il miracolo è subitaneo. È da notare che Gesù non chiede la fede, ma ne sottolinea il possesso da parte del figlio di Timèo: «Va’, la tua fede ti ha salvato». Quello che sfugge ai più, non sfugge al Figlio di Dio. Sa scovare in quella richiesta tutta la fede necessaria per ottenere il dono della vista.
D’altronde Gesù dal Padre è stato mandato nel mondo «a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).
Il racconto si conclude senza sottolineature di manifestazioni di gioia da parte del miracolato (cfr. At 3,8) o note che mettono in risalto lo stupore della folla (cfr. Mc 7,37). Ma la nota, prese a seguirlo per la strada, non è priva di importanza perché il termine scelto da Marco indica l’azione del seguire sia in senso fisico sia in senso spirituale, come per gli apostoli e gli altri discepoli.
È in atto un cammino di conversione. Gesù è la Luce del mondo (cfr. Gv 8,12) ed è venuto per dare la vista ai ciechi (cfr. Gv 9,39), ma è anche la Via (cfr. Gv 14,6) che conduce a salvezza. Così qui viene proposto quel-l’interiore cammino che ogni uomo deve compiere per porsi alla sequela di Gesù Nazareno: pentirsi dei propri peccati, farsi illuminare da Cristo (immergersi nelle acque salutari del Battesimo), prendere ogni giorno sulle spalle la croce del Maestro e seguirlo (cfr. Lc 9,23).
È la proposta che risuonerà nella città di Gerusalemme il mattino di Pentecoste: all’udire la predicazione degli Undici molti «si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo”» (At 2,37-38).
Riflessione
La tua fede ti ha salvato – La fede, che Gesù richiede fin dall’inizio del suo ministero (cfr. Mc 1,15) e che richiederà incessantemente, è un movimento di fiducia e di abbandono per il quale l’uomo rinunzia a far affidamento sui propri pensieri e sulle proprie forze, per rimettersi alle parole e alla potenza di Colui nel quale crede. Un movimento di fiducia e di abbandono necessario per ottenere innanzi tutto la salvezza: «Credere in Gesù Cristo e in colui che l’ha mandato per la nostra salvezza, è necessario per essere salvati [Mc 16,16; Gv 3,36; Gv 6,40]. “Poiché senza la fede è impossibile essere graditi a Dio” [Eb 11,6] e condividere le condizioni di suoi figli, nessuno può essere mai giustificato senza di essa e nessuno conseguirà la vita eterna se non “persevererà in essa sino alla fine” (Mt 10,22; Mt 24,13)”» (CCC 161).
Da qui la necessità di perseverare nella fede: «La fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente. Noi possiamo perdere questo dono inestimabile. San Paolo, a questo proposito, mette in guardia Timoteo: combatti «la buona battaglia con fede e buona coscienza, poiché alcuni che l’hanno ripudiata hanno fatto naufragio nella fede» (1Tm 1,18-19). Per vivere, crescere e perseverare nella fede sino alla fine, dobbiamo nutrirla con la Parola di Dio; dobbiamo chiedere al Signore di accrescerla; [cfr. Mc 9,24; Lc 17,5; Lc 22,32] essa deve operare “per mezzo della carità” [Gal 5,6; cfr. Gc 2,14-26] essere sostenuta dalla speranza [cfr. Rm 15,13] ed essere radicata nella fede della Chiesa» (CCC 162).
Se la fede è dono di Dio significa forse che Dio lascia qualcuno da parte? Questo è impossibile, perché Dio vuole che «tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). E nel vangelo di Giovanni leggiamo questa parola di speranza proferita da Gesù: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,31).
L’affermazione la fede è un dono che Dio fa all’uomo gratuitamente quindi non deve trarre in inganno: se la fede è una grazia, cioè «una virtù soprannaturale da Dio infusa» (CCC 153), è anche un atto umano: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo far credito a Dio e aderire alle verità da lui rivelate. Anche nelle relazioni umane non è contrario alla nostra dignità credere a ciò che altre persone ci dicono di sé e delle loro intenzioni, e far credito alle loro promesse [come, per esempio, quando un uomo e una donna si sposano], per entrare così in reciproca comunione. Conseguentemente, ancor meno è contrario alla nostra dignità “prestare, con la fede, la piena sottomissione della nostra intelligenza e della nostra volontà a Dio quando si rivela” [Concilio Vaticano I: Denz.-Schönm., 3008] ed entrare in tal modo in intima comunione con lui» (CCC 154).
Tra grazia e atto umano v’è l’ampio spazio della responsabilità dei credenti di fronte alle nuove forme religiose inequivocabilmente aggressive. Se lo scenario sembra avvicinarsi al catastrofico non dobbiamo mai dimenticare che la Chiesa ci insegna che con esse è necessario confrontarsi proprio sul piano culturale, dottrinale, teologico. Ma senza indulgere a falsi ecumenismi.
Scrive Massimo Introvigne: «Sia il pessimismo radicale che demonizza l’interlocutore e chiude anticipatamente la discussione, sia l’ottimismo ingenuo che rischia di condurre più che verso la conversione verso sincretismi infecondi, “doppie appartenenze” inaccettabili, tentativi sterili di conciliare l’inconciliabile. Fermezza e dialogo sono invece i due atteggiamenti di cui deve essere capace chi intende rivolgersi agli adepti dei nuovi movimenti religiosi e magici, senza blandirli né incoraggiarli, ma insieme prendendoli, come ogni uomo merita, assolutamente sul serio».
Fermezza e dialogo dunque, e se è vero, come diceva Cicerone, che siamo nati «con l’istinto dell’unione, dell’associazione e della comunanza propri del genere umano», è anche vero che è da sciocchi voler dialogare a tutti i costi con chi ti vuole tagliare la testa per convincerti al suo credo.
Allora, fermezza, dialogo e intelligenza!
La pagina dei Padri
I miracoli del Signore insegnano verità profonde – San Gregorio Magno: Il nostro Redentore, prevedendo che gli animi dei suoi discepoli si sarebbero turbati a causa della sua Passione, predisse loro con molto anticipo sia lo strazio della Passione che la gloria della sua Risurrezione, affinché, vedendolo morente, così come era stato predetto, non avessero dubitato che sarebbe anche risorto. E siccome i discepoli erano ancora carnali e del tutto incapaci di comprendere le parole del mistero, il Signore operò un miracolo. Davanti ai loro occhi, un cieco riacquistò la vista, perché coloro che non capivano le parole dei misteri celesti per mezzo dei fatti celesti venissero consolidati nella fede. Però, fratelli carissimi, i miracoli del Signore e Salvatore nostro vanno considerati in modo tale da credere che non soltanto accaddero realmente, ma vogliono altresì insegnarci qualcosa con il loro simbolismo. I gesti di Gesù, invero, oltre a provare la sua divina potenza, con il mistero insito in loro ci istruiscono.
Noi non sappiamo in verità chi fosse quel cieco, però sappiamo cosa egli significa sul piano del mistero. Il cieco è simbolo di tutto il genere umano, estromesso dal paradiso terrestre nella persona del primo padre Adamo. Da allora, gli uomini non vedono più lo splendore della luce superna, e patiscono le afflizioni della loro condanna. E nondimeno, l’umanità è illuminata dalla presenza del suo Salvatore, sì da poter vedere – almeno nel desiderio – il gaudio della luce interiore, e dirigere così i passi delle buone opere sulla via della vita.