meditazioni, settembre

16 Settembre 2018 – XXIV del Tempo Ordinario (B)

Dal libro del profeta Isaìa (50,5-9a) – Ho presentato il mio dorso ai flagellatori: Il brano è tratto dal «terzo canto del servo del Signore». La missione del servo è quella di istruire coloro che «temono Dio», cioè tutti i pii giudei, ma anche coloro «che camminano nelle tenebre». Grazie al suo coraggio e alla assistenza divina, sopporterà torture e umiliazioni, fisiche e morali, finché Dio gli accorderà un trionfo definitivo. Questa descrizione delle sofferenze del servo sarà ripresa e sviluppata nel quarto canto (cfr. Is 52,13-53,12). Tutto si compirà nella persona del Cristo.

Dal Salmo 114 (116) – Camminerò alla presenza del Signore nella terra dei viventi: «Il salmista ha superato il timore: ama. Chi ama? Tu amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze [Dt 6,5; Mt 22,37], al punto di lottare per lui fino alla morte [vv. 1-3]. Doglie di morte, pericoli d’inferno… tribolazione e dolore… Ho sofferto tutto questo per Dio, perché lo amo. Non mio malgrado, ma con slancio mi sono consegnato. Ho tutto abbracciato per amar di Dio, ho amato tutto per il Signore. E perché lo amavo, ho invocato il nome del Signore [vv. 4-8]. Piacerò al Signore nella terra dei viventi. Questo mondo è mortale, un luogo per i morenti. Nella terra dei viventi non ci sarà più mutamento; è dunque soprattutto là che il profeta piacerà a Dio [v. 9]» (Eusebio).

Dalla lettera di san Giacomo apostolo (2,14-18) – La fede se non è seguita dalle opere in se stessa è morta: Giacomo entra in polemica con chi presumeva di salvarsi solo con la fede, escludendo le opere. La fede è viva soltanto se ricca di opere di carità, altrimenti sarebbe ipocrita ostentazione di una fede incapace di portare frutti di salvezza.

Dal Vangelo secondo Marco (8,27-35) – Tu sei il Cristo… Il Figlio dell’uomo dove molto soffrire: A differenza di Matteo, Marco, come Luca, è molto più stringato: alla confessione della messianicità di Gesù non aggiunge quella della filiazione divina e omette altri particolari. A seguito della professione di fede esplicita nella sua messianicità, Gesù fa il primo annunzio della passione: «al compito glorioso di Messia egli aggiunge il compito doloroso di servo sofferente. Con questa pedagogia, che sarà rafforzata qualche giorno dopo dalla trasfigurazione, anch’essa seguita dall’imposizione del silenzio e da un annunzio analogo (Mt 17,1-12), egli prepara la loro fede alla prossima crisi della sua morte e resurrezione» (Bibbia di Gerusalemme). Pietro, non comprendendo appieno le parole, tenta di vanificare il progetto del Maestro, diventando in questo modo il fautore, certo incosciente, dello stesso Satana (cfr. Mt 4,1-10).

Dal Vangelo secondo Marco

In quel tempo, Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti». Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini». Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà».

Approfondimento

La fede e le opere – «A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha opere? Quella fede può forse salvarlo?». Questa affermazione sembra contraddire l’insegnamento di Paolo sulla giustificazione. In verità, il punto di vista di san Giacomo non è inconciliabile con quello difeso dall’apostolo Paolo (cfr. Rm 3,20-31; 9,31; Gal 2,16; 3,2.5; 11s; Fil 3,9).

Nel mondo antico contrarre un’alleanza con altri comportava obblighi da entrambe le parti. La sua rottura prevedeva pene e sanzioni. In Israele, il giudeo fedele agli obblighi assunti veniva definito giusto. Non diversamente avveniva nel caso dell’alleanza tra il popolo d’Israele e Dio: Israele si obbligava ad obbedire alla volontà di Dio, veicolata dalla Legge (Torah), mentre Dio si impegnava a custodire il suo popolo e a salvarlo compiendo atti salvifici. Così si radicò la convinzione che l’uomo veniva giustificato solo dall’osservanza della Legge. Trasgredirla o non conoscerla significava essere maledetti (cfr. Gv 7,49).

Ora, se l’infedeltà alla Legge, col passare del tempo, si faceva sempre più profonda, la fedeltà alle pratiche religiose si faceva sempre più radicale, trasformando il culto divino in «un imparaticcio di usi umani» (Is 29,13). Ma, nonostante tutto, Israele continuò a pretendere con sfrontatezza di poter fruire della salvezza, venendo così a infrangere il patto dell’alleanza e a ledere la sovranità, la magnanimità e la libertà di Dio. Sarà la spinosa questione che coinvolgerà da una parte i Farisei che si ritenevano giusti davanti a Dio e agli uomini (cfr. Lc 16,15) e dall’altra Cristo e poi i cristiani (cfr. Mt 15,1-20; Mc 7,1-23).

Il NT, pur recuperando le prospettive concernenti l’alleanza tra Dio e gli uomini, apporterà una rivoluzione a trecentosessanta gradi: l’alleanza sarà suggellata non più «con il sangue di capri e di tori» (Eb 10,4), ma con il sangue di Gesù, il Verbo di Dio fatto carne (cfr. Gv 1,14).

Da qui ne consegue che l’uomo viene restituito alla sua originaria giustizia solo se, attraverso la fede e il battesimo, aderisce a Cristo: «Noi crediamo che per la grazia del Signore Gesù siamo salvati» (At 15,11). È su tali basi che Paolo formulerà il principio fondamentale della “giustificazione per fede” (cfr. Rm 5,1), un principio già presente nella predicazione apostolica: «… per opera [di Cristo] viene annunciato a voi il perdono dei peccati. Da tutte le cose da cui mediante la legge di Mosé non vi fu possibile essere giustificati, per mezzo di [Cristo] chiunque crede è giustificato» (At 13,39). Le opere, dunque, sono prive di ogni valore salvifico e solo per questo motivo Paolo le riguarda con profondo pessimismo («opere delle tenebre» Rm 13,12; «opere infruttuose delle tenebre» Ef 5,11; «opere della carne» Gal 5,19).

Ciò che respinge l’Apostolo è «il valore delle opere umane per meritare la salvezza senza la fede in Cristo. Una tale fiducia nello sforzo che l’uomo fa per rendersi giusto misconosce il fatto che egli è radicalmente peccatore [Rm 1,18-3,20; Gal 3,22] e rende vana la fede in Cristo [Gal 2,21; cfr. Rm 1,16]. Ma anche Paolo ammette che, dopo aver ricevuto la giustificazione per pura grazia, la fede deve essere esercitata dalla carità [1Cor 13,2; Gal 5,6] e occorre osservare veramente la legge [Rm 8,4], che per lui è la legge del Cristo e dello Spirito [Gal 6,2; Rm 8,2], la legge dell’a-more [Rm 13,8-10; Gal 5,14]. Ciascuno sarà giudicato secondo le sue opere [Rm 2,6]» (Bibbia di Gerusalemme).

Ora, Giacomo non si discosta da questo pensiero; il suo vero intento è quello di ricordare e di insegnare che la fede necessariamente deve sfociare nelle buone opere. Infarti, e non a caso, più avanti, ricorderà Abramo il quale fu «giustificato per le sue opere» (Gc 2,21), alludendo «al sacrificio del suo figlio Isacco o alla disponibilità totale a compiere la volontà di Dio fino al sacrificio del figlio [Gen 22,9-12]. In quell’occasione un ariete sostituì Isacco nel sacrificio, ma l’oggetto del sacrificio non era la propiziazione come tale, bensì una prova dell’ubbidienza dell’uomo di fronte alla volontà di Dio. L’autore della nostra lettera sfrutta questo aspetto del sacrificio di Abramo basandosi sull’interpretazione che avevano data del fatto i teologi del suo tempo. Fu quel gesto che lo rese giusto davanti a Dio» (Felipe F. Ramos).

Quindi sono modi diversi di interpretazione: mentre san Giacomo esige per la salvezza che la fede si dimostri viva nelle opere della carità, san Paolo insegna che a salvare l’uomo è la fede in Cristo e non le opere della Legge, intese come alternativa alla fede in Cristo. Quindi, un contrasto apparente, due pensieri forti che poggiano su un’unica verità, accettata sia da Giacomo che da Paolo: Gesù è il solo e unico Salvatore (Gv 8,24).

Commento al Vangelo

E voi chi dite che io sia? – Gesù è in cammino «verso i villaggi intorno a Cesarea di Filippo». La città, ai piedi del monte Ermon, era stata ricostruita sfarzosamente, in stile squisitamente ellenistico, da Filippo, figlio di Erode il Grande e di Cleopatra di Gerusalemme. L’aveva chiamata Cesarea in onore di Tiberio Cesare aggiungendovi il suo nome per distinguerla dalle altre Cesaree.

Per strada interrogava, Gesù saggia la fede dei suoi discepoli e la conoscenza che essi hanno della sua persona. Questo modo informale sembra suggerire che Gesù voglia mettere a proprio agio i suoi interlocutori perché possano esprimere le loro idee con franchezza, in tutta libertà. La risposta è spontanea e fa intendere che essi non si associano al sentire comune. Interpellati personalmente, «Ma voi, chi dite che io sia?», essi rispondono affidandosi alla mediazione di Pietro. Che sia Pietro a pren­dere la parola fa capire che già in gruppo ne avevano parlato ed ora lasciavano la parola a colui di cui riconoscevano una certa autorità.

Tu sei il Cristo. Questa risposta va al di là della stessa comprensione umana di Pietro così come suggerisce Matteo: «Beato sei tu, Simone, figlio di Giona, perché né carne né sangue te lo hanno rivelato, ma il Padre» (16,17).

Il divieto severo di «non parlare di lui ad alcuno», è volto anche a non suscitare false speranze soprattutto in mezzo al popolo: il messianismo atteso dai giudei, un messianismo politico, liberatore, non era in sintonia con quello di Gesù.

A questo punto, Gesù cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto… venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare.

Figlio dell’uomo, questo titolo in origine stava ad indicare l’uomo in tutta la debolezza della sua condizione umana (cfr. Ez 2,1), successivamente verrà usato da Daniele (7,13) e poi dall’apocalittica giudaica per indicare il personaggio trascendente, d’origine celeste, che riceve da Dio il regno escatologico, in questo modo si veniva ad evidenziare, in maniera misteriosa ma sufficientemente chiara, il carattere del suo messianismo.

È questa la prima occasione in cui Gesù annunzia ai discepoli i patimenti e la morte che dovrà soffrire, successivamente lo farà altre due volte (cfr. Mc 9,30-31; 10,32-34). L’annuncio disorienta gli Apostoli. Tutto sembrava andare sull’onda del successo: miracoli, prodigi ed anche un ampio consenso popolare. In questa ottica, gli Apostoli non potevano accettare la disfatta preconizzata dal Maestro: la loro esaltante avventura non poteva finire tragicamente e soprattutto con la morte ignominiosa di Gesù, così come lui definiva la sua dipartita. Gesù parla di morte e di risurrezione: se la sua morte imbarazza i discepoli, ancora di più la sua risurrezione; infatti, come si legge altrove, gli stessi discepoli si chiedevano «che cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9,10).

Il discorso era chiaro, deciso, senza sconti, appunto «apertamente». Pietro, come si era sentito in dovere di rispondere in rappresentanza di tutto il gruppo apostolico, così ora si arroga il diritto di chiamare in disparte il Maestro e rimproverarlo.

Voleva convincerlo a gettare acqua sul fuoco, ma in verità non poteva capire perché la sua mente era ancora chiusa (cfr. Mc 6,52; 7,18; 8,17-18; 8,21.33; 9,10.32.38), così chiusa da aprirsi inconsapevolmente al nefasto influsso di Satana. Satana, il grande seduttore di tutta la terra (cfr. Ap 12,9), aspettava proprio questo momento: aveva promesso di mettersi di traverso, ostacolare il progetto di Dio (cfr. Lc 4,13). E Pietro involontariamente fa il suo giuoco: con il suo intervento inopportuno, opponendosi, si mette di traverso avversando il progetto salvifico del Padre che “necessariamente” (Lc 24,26) doveva passare attraverso la morte di croce del Figlio (cfr. Fil 2,10).

Il rimprovero di Gesù va in questo senso, non vuole dire che Pietro sia posseduto dal demonio, ma soltanto che le vie di Dio non sono le vie degli uomini (cfr. Is 55,8-9). Va’ dietro di me, Satana. Una risposta che vuole fare “ordine gerarchico”. Chi sta dietro è il discepolo. Gesù dice a Pietro: «Ritorna al tuo posto. Riprendi il tuo posto di discepolo». Voltatosi e guardando i suoi discepoli, Gesù rimprovera Pietro guardando in faccia i discepoli. Il Maestro attua questa manovra non perché non voglia guardare Pietro negli occhi, ma perché il rimprovero fatto al Capo degli Apostoli è una parola che da tutti deve essere intesa e capita, perché tutti (anche le alte cariche gerarchiche della Chiesa) possono essere preda di Satana, possono diventare Satana, nessuno escluso: «Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!» (Gv 6,70).

Convocata la folla, Gesù aggiunge quel tassello che mancava e tanto necessario perché Pietro comprendesse il rimprovero: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua». Anche qui dobbiamo mettere l’accento sulla volontà di Gesù di sottolineare che tutti devono seguire il suo insegnamento, folla e Apostoli. Rinnegare se stessi è rinunciare a ritenersi padroni della propria vita. È donare incondizionatamente la propria vita a Dio: è permettere che Lui l’impasti, secondo la sua infinita sapienza, anche con l’acqua del dolore e della morte cruenta, cioè con la morte di croce. La croce per il cristiano non è un incidente di percorso. Il secondo paradosso è ancora più comprensi-bile: mentre la vita terrena vissuta rifiutando il Cristo va verso l’eterna dispersione, la vita terrena, vissuta nel nome di Cristo dopo la morte sfocia nella perfetta comunione con i Tre.

Riflessione

I doni della croce – La croce non è il cuore del Vangelo. Il cuore del Vangelo è la Risurrezione di Cristo che ha squarciato le tenebre che avvolgevano gli uomini. La croce è stata assorbita da quel grido che oltre misura ha colmato di gioia e di speranza il mondo intero: «Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto… come aveva detto» (Mt 28,5-6).

Ma la croce è legata a doppia mandata con la Risurrezione, non solo cronologicamente, perché ha preceduto l’evento pasquale, ma esistenzialmente, perché ha preso per mano i credenti e li hacondotti sulla tomba vuota del Risorto catapultandoli in una vita nuova, nella vita del Risorto.

Così, creatura nuova, rivestito di Cristo, il discepolo si apre ai doni del Risorto: la pace, la gioia, lo Spirito Santo (cfr. Gv 20,19-22). Ma il dono più inebriante che la croce possa fare all’uomo che l’accoglie con gioia è la libertà. Solo se l’uomo si lascia inchiodare sulla croce entrerà «nella libertà della gloria dei figli di Dio» (Rm 8,21). Sembra una pazzia, ma è proprio così. Ecco perché Gesù invita a prendere la croce: per sbarazzarsi una volta per sempre dalla concupiscenza «della carne, degli occhi e dalla superbia della vita» (1Gv 2,16) che rende veramente l’uomo schiavo.

Paolo insegna che i discepoli battezzati in Cristo si sono rivestiti di Cristo (cfr. Gal 3,27) e gli appartengono, Cristo però è stato crocifisso, quindi quelli «che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri» (Gal 5,24-26). Questa affermazione paolina molto forte «definisce la situazione dei cristiani in un modo che, a prima vista, sembra incompatibile con l’affermazione della libertà cristiana. Come può essere libera una persona inchiodata a una croce? Non c’è forse contraddizione? No, la libertà cristiana si accorda perfettamente con la crocifissione cristiana, perché ciò che è crocifisso è proprio l’ostacolo alla vera libertà, “la carne con le passioni e i desideri”, e questa crocifissione è unione a Cristo nell’amore, il quale rende liberi [cfr. 2,19-20]. L’in-segnamento di Paolo corrisponde all’esigenza di portare la croce per seguire Gesù, espressa nel vangelo [cfr. Mc 8,34 e paralleli]» (A. Vanhoye, Lettera ai Galati).

Ma vi è un altro dono che la croce porta ai discepoli del Cristo crocifisso: l’amicizia di Dio. Gesù, un giorno, disse a Padre Pio: «Quante volte mi avresti abbandonato, figlio mio, se non ti avessi crocifisso. Sotto la croce si impara ad amare ed io non la do a tutti, ma solo alle anime che mi sono più care» (Ep. Vol. I, lettera 116). Gesù dà la croce soltanto ai suoi amici più cari, forse per questo nel mondo, e non soltanto nel mondo, ha pochi amici.

La pagina dei Padri

Gesù sottolinea il motivo per cui soffrire – Giovanni Crisostomo: «Chi vuol venire dietro a me»: cioè chiunque, uomo, donna, re, schiavo, s’in-cammini per questa via. E sembra esprimere qui una sola cosa, ma in realtà ne dice tre: «rinunzi a se stesso», «e prenda la sua croce», «e mi segua». Le prime due esortazioni sono congiunte, mentre la terza è proposta indipendentemente. Cristo non dice soltanto di non risparmiare e di non aver riguardo per sé stessi, ma con vigore ancor più grande esorta a rinunziare a sé, il che vuol dire: non aver niente a che vedere e fare con sé stessi, ma abbandonarsi ai pericoli e alle lotte, senza avere reazioni come se fosse un altro a soffrire. E non dice: neghi, ma «rinneghi», rinunzi, manifestando, mediante questa piccola aggiunta, l’estremo grado del rinnegamento. «E prenda la sua croce». Si tratta di un’ulteriore conseguenza della rinunzia a sé stessi. Affinché non si creda che tale rinunzia consista semplicemente nel subire ingiurie e oltraggi a parole, il Signore sottolinea fin dove dobbiamo spingere il nostro rinnegamento: sino alla morte, e a una morte infamante. Non dice perciò: rinneghi se stesso sino alla morte, ma «prenda la sua croce», dichiarando apertamente di quale morte ignominiosa si tratti, e che si deve fare ciò non una o due volte, ma tutta la nostra vita. Porta ovunque e sempre con te questa morte – egli dice in altri termini – e ogni giorno sii pronto a lasciarti uccidere. Molte persone infatti hanno disprezzato le ricchezze, i piaceri e la gloria, ma non hanno superato il timore dei pericoli e della morte, lo voglio invece – continua Cristo – che il mio discepolo, il mio atleta lotti sino al sangue e affronti combattimenti fino alla morte. Se è necessario pertanto subire la morte e la morte più vergognosa ed esecrabile, anche per un ingiusto sospetto, tutto devi sopportare coraggiosamente e, ancor più, rallegrarti per questo. «E mi segua». Può accadere, infatti, che colui che soffre, non segua Cristo, in quanto non soffre per lui.

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