agosto, Liturgia

26 Agosto 2018 – XXI del Tempo Ordinario (B)

Dal libro di Giosuè (24,1-2a.15-17.18b) – Serviremo il Signore, perché egli è il nostro Dio: Il 24mo capitolo del libro di Giosuè si divide in tre sezioni: nella prima parte, Giosuè ricorda a tutte «le tribù d’Israele» i prodigiosi interventi compiuti da Dio a loro favore (vv. 1-13); nella seconda parte, il popolo, sollecitato da Giosuè, decide di scegliere Jahvé come Dio, rifiutando in questo modo di servire gli dèi stranieri (vv. 14-23); nella terza parte, Giosuè conclude un’alleanza con il popolo dandogli uno statuto e una legge. Il capitolo si chiude con il racconto della morte di Giosuè e di Eleazaro, figlio di Aronne. Senza più la loro guida, la fede di Israele, pian piano nel tempo, perderà questo suo originario smalto sfociando inevitabilmente nell’apostasia e nell’abbandono di Dio.

Dal Salmo 33 (34) – Gustate e vedete com’è buono il Signore: La malizia uccide l’empio: «La morte spaventosa dei peccatori è un modo per pagare il castigo meritato, ma non elimina la loro ingratitudine; invece la morte preziosa dei santi è come un rendimento di grazie per la morte del Cristo e qualcosa che assomiglia a uno scambio, poiché il Cristo è buono e si accontenta della rassomiglianza più piccola con la sua morte» (Bal-dovino di Ford).

Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (5,21-32) – Questo mistero è grande: io lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa: «I vv. 23-32 stabiliscono tra il matrimonio umano e l’unione del Cristo con la chiesa un parallelo da cui i due termini raffrontati si rischiarano a vicenda: il Cristo può essere detto sposo della Chiesa perché è suo capo e la ama come il suo proprio corpo, così come avviene tra marito e moglie; questo paragone, una volta ammesso, fornisce in cambio un modello ideale al matrimonio umano. Un tale simbolismo immerge le sue radici nell’Antico Testamento, che rappresenta spesso Israele come la sposa di Jahvé [Os 1,2]» (Bibbia di Gerusalemme).

Dal Vangelo secondo Giovanni (6,60-69) – Da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna: Le parole di Gesù sul pane eucaristico provocano le più disparate reazioni. Il realismo del mangiare e del bere la carne e il sangue del Figlio di Dio sortisce tra i discepoli sconcerto e molti scan­dalizzati si ritirano. Gesù non si lascia intimidire, insiste e anziché attenuare le affermazioni rimprovera la loro “intelligenza carnale”. È un invito ad aprirsi incondizionatamente all’azione dello Spirito Santo (cfr. Gv 1,33): «il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto» (Gv 14,26). La risposta di Pietro, tu sei il Santo di Dio, che corrisponde alla professione di fede espressa nel vangelo di Matteo (cfr. Mt 16,16), indi­ca l’identità di Gesù nel suo rapporto unico con Dio.

Dal Vangelo secondo Giovanni

In quel tempo, molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?». Gesù, sapendo dentro di sé che i suoi discepoli mormoravano riguardo a questo, disse loro: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? È lo Spirito che dà la vita, la carne non giova a nulla; le parole che io vi ho detto sono spirito e sono vita. Ma tra voi vi sono alcuni che non credono». Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito. E diceva: «Per questo vi ho detto che nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre». Da quel momento molti dei suoi discepoli tornarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio».

Approfondimento

Cristo e il matrimonio – C. Wiéner (Matrimonio in Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, Edizioni Marietti): 1. La nuova legge –  Riferendosi esplicitamente, al di là della legge di Mosè, al disegno creatore della Genesi, Gesù afferma il carattere assoluto del matrimonio e la sua indissolubilità (Mt 19,1-9): Dio stesso unisce l’uomo e la donna, dando alla loro libera scelta una Consacrazione che li trascende.

Essi sono «una sola carne» dinanzi a lui; perciò il ripudio, tollerato a motivo della durezza dei cuori», dev’essere escluso nel regno di Dio, in cui il mondo ritorna alla sua perfezione originale. L’eccezione del «caso di fornicazione» (Mt 19,9) non ha certamente di mira una giustificazione del divorzio (cfr. Mc 10,11s; Lc 16,18; 1Cor 7,10s); concerne o il rinvio di una sposa illegittima, oppure una separazione cui non potrà far seguito un altro matrimonio. Di qui lo spavento dei discepoli dinanzi al rigore della nuova legge: «Se questa è la condizione dell’uomo nei confronti della donna, è meglio non sposarsi!» (Mt 19,10).

Questa esigenza sui principi non esclude la misericordia verso gli uomini peccatori. A più riprese Gesù incontra adultere o persone infedeli all’i-deale dell’amore (Lc 7,37; Gv 4,18; 8,3ss; cfr. Mt 21,31s). Le accoglie, non per approvare la loro condotta, ma per apportare loro una conversione ed un perdono che sottolineano il valore dell’ideale tradito (Gv 8,11).

  1. Il sacramento del matrimonio – Gesù non si accontenta di ricondurre l’istituzione del matrimonio a questa perfezione primitiva che il peccato umano aveva oscurato. Gli dà un fondamento nuovo che gli conferisce il suo significato religioso nel regno di Dio. Con la nuova alleanza che fonda nel suo proprio sangue (Mt 26,28), egli stesso diventa lo sposo della Chiesa. Per i cristiani, diventati con il battesimo templi dello Spirito Santo (1Cor 6,19), il matrimonio è quindi «un grande mistero in rapporto a Cristo ed alla Chiesa» (Ef 5,32). La sottomissione della Chiesa a Cristo e l’amore redentore di Cristo per la Chiesa, che egli ha salvato dandosi per essa, sono così la regola vivente che gli sposi devono imitare; potranno farlo, perché la grazia di redenzione tocca il loro stesso amore assegnandogli il suo ideale (5,21-33).

La sessualità umana, di cui bisogna valutare con prudenza le esigenze normali (1Cor 7,1-6), è assunta ora in una realtà sacra che la trasfigura.

  1. Il matrimonio e la verginità – «Non è bene che l’uomo sia solo», diceva Gen 2,18. Nel regno di Dio instaurato da Gesù appare un nuovo ideale.

Per il regno, degli uomini si faranno «eunuchi volontari» (Mt 19,11s). È il paradosso della verginità cristiana. Fra il tempo del Vecchio Testamento, in cui la fecondità era un dovere primario al fine di perpetuare il popolo di Dio, e la pàrusia, in cui il matrimonio sarà abolito (Mt 22,30 par.), due forme di vita coesistono nella Chiesa: quella del matrimonio, che il mistero di Cristo e della Chiesa trasfigura, e quella del celibato consacrato, che Paolo reputa la migliore (1Cor 7,8.25-28). Non si tratta di disprezzare il matrimonio (cfr. 1Cor 7,1), ma di vivere pienamente il mistero nuziale al quale ogni cristiano partecipa già con il battesimo (2Cor 11,2): con l’unirsi al Signore totalmente per non piacere che a lui solo (1Cor 7,32-35), si attesta che la figura del mondo presente, alla quale l’istituzione matrimoniale è correlativa, si avvia verso la fine (1Cor 7,31).

In questa prospettiva l’ideale sarebbe che «coloro che hanno moglie vivano come se non l’avessero» (1Cor 7,29) e che le vedove non si risposino. Ma tutto questo dipende in fin dei conti dal Signore: si tratta di vocazioni diverse e complementari nell’ambito del corpo di Cristo: in questo, come negli altri campi, «Ciascuno riceve da Dio il proprio dono particolare, uno questo l’altro quello» (1Cor 7,7; cfr. Mt 19,11).

Commento al Vangelo

Molti dei suoi discepoli non andavano più con lui – Già Matteo e Luca avevano registrato un fallimento in terra di Galilea (cfr. Mt 11,20-24; Lc 10,13-15). Qui, Giovanni, a differenza dei sinottici, fa cenno del ritiro di molti dei suoi discepoli che da quel momento tornarono indietro e non andavano più con lui. Una scissione che era in aria da tempo.

Gesù aveva già detto: «Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde» (Mt 12,30), non vi sono scelte alternative o scappa­toie. La sequela cristiana esige un dono pieno, senza mezze misure o ripensamenti: “Un altro disse: «Ti seguirò, Signore; prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia». Ma Gesù gli rispose: «Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio»” (Lc 9,61-62).

Dinanzi allo sconcerto dei discepoli, Gesù non addolcisce il suo dire, anzi preannuncia loro l’evento conclusivo «della sua esistenza terrena, che potrebbe essere motivo di uno scandalo maggiore: Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? In realtà il Verbo incarnato il giorno della sua risurrezione salì al Padre [Gv 20,17], dal quale ricevette quella gloria che aveva prima dell’esistenza del mondo [Gv 17,5.24]. Chi sale al Padre è il Figlio dell’uomo, ossia Gesù con la sua natura umana. Lo scandalo dell’ascensione si trova nel fatto che un uomo sia salito presso Dio, dove svolge la funzione di avvocato in nostro favore [1Gv 2,1]» (Salvatore Alberto Panimolle).

Figlio dell’uomo, questa espressione nell’Antico Testamento presenta più di una sfumatura semantica. In Ezechiele ricorre circa 90 volte e indica un singolo individuo del genere umano. In altri testi (cfr. Sal 8,5; 146,3; Ger 49,18; 49,33) indica l’umanità nel suo complesso. In Dn 7,13 indica un uomo comune che è portato sulle nubi del cielo davanti al vegliardo. Da alcune correnti del giudaismo successivo sarà identificato con il Messia davidico.

Nel Nuovo Testamento l’appellativo Figlio dell’uomo si riferisce sempre a Gesù ed è uno dei titoli con il quale egli stesso molte volte preferisce autodesignarsi e generalmente vuole sottolineare la sua umanità. Rifacendosi poi a Dn 7,13, questa espressione vuole mettere in risalto la funzione salvifica di Gesù. Molti ritengono questa espressione come un modo discreto al quale Gesù ricorreva per rivendicare con vigore la sua messianicità ma nel contempo usando l’accortezza di non suscitare facili entusiasmi tra i suoi ascoltatori.

Gesù infatti sapeva fin da principio chi erano quelli che non credevano e chi era colui che lo avrebbe tradito: la preconoscenza o preveggenza di Gesù è una nota squisitamente giovannea (cfr. Gv 2,23s; 6,6; 21,17). Qui si allude anche alla conoscenza del tradimento di Giuda: le macchinazioni torbide dell’apostolo fedifrago non coglieranno quindi di sorpresa Gesù, restando comunque un mistero. Soltanto il quarto vangelo dà di Giuda delle notizie che lo squalificano: è un ladro (Gv 12,6: Giuda era un ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro) ed è un uomo certamente in combutta con il diavolo (Gv 6,70: “«Non sono forse io che ho scelto voi, i Dodici? Eppure uno di voi è un diavolo!». Parlava di Giuda”), e per tali peccati certamente alla mercé di Satana (Gv 13,27: Allora, dopo il boccone, Satana entrò in lui). Forse tentativi da parte di Giovanni per spiegare l’insano gesto di Giuda. Comunque tali intenti non inficiano la verità storica su Giuda e sul suo gesto insano.

L’affermazione nessuno può venire a me, se non gli è concesso dal Padre non sta ad indicare una sorta di determinismo, tanto caro a certe religioni. Per la sacra Scrittura nessuno è escluso dal progetto salvifico voluto dal Padre e nessuno è escluso dalla salvezza portata da Cristo: Dio «vuo-le che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4; cfr. Rm 1,1; 8,29-30; At 9,15). Si vuole soltanto dire che nessuno può accampare diritti o privilegi, tutto infatti è dono e grazia. La chiamata divina presuppone sempre la libera risposta da parte dell’uo-mo.

Volete andarvene anche voi?, in questo modo viene sollecitata la fede dei Dodici e anche la nostra fede, spingendoci ad uscire dai nostri schemi, dalle nostre sicurezze. La vita cristiana si edifica sulla fede, sul credere fermamente che possiamo fidarci di Dio senza timori, certi che la sua fedeltà e il suo amore non vengono mai meno. La fede poggia sulla certezza che tutto ciò che Egli può chiedere non supera mai le nostre capacità, le nostre forze.

La confessione di Pietro, Tu sei il Santo di Dio, richiama la confessione fatta dall’Apostolo a Cesarea di Filippo: Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente (Mt 16,13-20; cfr. Mc 6,27-30; Lc 9,18.21).

Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna: “La risposta dei dodici viene da Simon Pietro ed è come altre volte pronta, entusiasta. Per l’apostolo non c’alternativa: o con Gesù o con nessuno. Fuori di lui non c’è alcuna vita, vera e definitiva. Solo attraverso Gesù si ha la possibilità di accedere al Padre, fonte della vita, il vivente per eccellenza. Ed è nell’eucarestia che il fedele fa memoria della insuperabile carità di colui che dà la vita per i suoi amici [Gv 15,13]” (Ortensio da Spinetoli).

Parola e Pane, due alimenti che la Chiesa non ha mai disgiunto: «La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli» (Dei Verbum 21).

 

Riflessione

Questa parola è dura! Chi può ascoltarla? – È duro il linguaggio della sequela senza compromessi… è duro il linguaggio della radicalità evange­lica… è duro il linguaggio della croce: umiliazioni, fallimenti, malattie, persecuzioni… è duro accettare il volto umano della Chiesa, i suoi errori, la sua lentezza nelle decisioni da prendere, la sua prudenza umana, gli scontri fra le sue personalità. È duro continuare a stare con Gesù «quan-do tutto è buio, quando la casa crolla, la barca è agitata o si rovescia, nella tempesta e nell’inondazione, in mezzo agli insuccessi e alle disgrazie» (E. Le Joly).

È duro accettare il proprio peccato che costringe ad incominciare da capo, è duro accettare che il tesoro della nostra fede è posto in un vaso di creta (2Cor 4,7), è duro accettare la nostra fragile umanità che marca vistosamente la nostra debolezza umana, la nostra naturale cattiveria (Lc 11,13).

«Signore, la mia fede è veramente vissuta? la mia fiducia in te è totale in tutte le circostanze? Sono con te, dalla tua parte, pronto a camminare in tua compagnia? Oppure sono uno di coloro che accettano con gioia “il pane e i pesci”, cosa che non richiede nessuno sforzo, ma si allontanano e si ritirano quando si tratta di “mangiare la tua carne”, di fare le cose difficili per la nostra natura?» (E. Le Joly).

La fedeltà a Dio va vissuta nel quotidiano, attimo dopo attimo, ed esige un risposta libera senza compromessi. La grandezza dell’uomo sta nella forza e nella libertà della sua scelta e della sua risposta, come Giosuè: «Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore» (cfr. I lettura), la stessa cosa che fa Pietro, a nome dei Dodici, dinanzi al discorso duro del Maestro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna».

Giosuè e Pietro hanno deciso di seguire la Vita. È duro, perché è più facile seguire gli dèi degli Amorrèi (cfr. I lettura): è una tentazione sempre in agguato… è “una storia che stiamo riscrivendo parola per parola oggi. Noi che abbiamo già udito parole di salvezza, che abbiamo fatto mille volte l’esperienza della bontà di Gesù, che lo abbiamo incontrato nella bontà degli amici, siamo tentati di andare a cercare felicità altrove…” (Sr Margherita Dal Lago, f.m.a.).

Ciò che salva è aderire a Cristo, alla sua Persona, alla sua Parola, perché «Cristo Gesù nostra speranza» (1Tm 1,1) non delude mai. La fede è un dono che esige onestà, trasparenza e una profonda certezza: «Non fatevi illusioni: Dio non si lascia ingannare. Ciascuno raccoglierà quello che avrà seminato. Chi semina nella sua carne, dalla carne raccoglierà corruzione; chi semina nello Spirito, dallo Spirito raccoglierà vita eterna» (Gal 6,7-8).

La pagina dei Padri

Tu hai parole di vita eterna – Sant’Agostino: L’evangelista ci racconta che il Signore restò con dodici discepoli, i quali gli dissero: «Ecco, Signore, quelli ti hanno abbandonato». E Gesù rispose: «Anche voi ve ne volete andare?» (Gv 6,67), volendo dimostrare che egli era necessario a loro, e non loro erano necessari a Cristo.

Nessuno s’immagini d’intimorire Cristo, rimandando di farsi cristiano, quasi che Cristo sarà più beato se ti farai cristiano. Diventare cristiano, è bene per te: perché, se non lo diverrai, con ciò non farai del male a Cristo. Ascolta la voce del salmo: «Ho detto al Signore: Tu sei il mio Dio, poiché non hai bisogno dei miei beni» (Sal 15,2). Perciò «Tu sei il mio Dio, poiché non hai bisogno dei miei beni».

Se tu non sarai con Dio, ne sarai diminuito; ma Dio non sarà più grande, se tu sarai con lui. Tu non lo fai più grande, ma senza di lui tu diventi più piccolo. Cresci dunque in lui, non ritraiti, quasi ne ricavasse una diminuzione. Se ti avvicini a lui, ne guadagnerai; ti distruggi, se ti allontani da lui. Egli non subisce mutamento, sia che tu ti avvicini, sia che tu ti allontani. Quando, dunque, egli disse ai discepoli: «Anche voi ve ne volete andare?», rispose Pietro, quella famosa pietra, e a nome di tutti disse: «Si­gnore, a chi andremo noi? Tu hai parole di vita eterna» (Gv 6,68)… «E noi abbiamo creduto e abbiamo conosciuto» (Gv 6,69).

Non dice Pietro, abbiamo conosciuto e abbiamo creduto, ma «abbiamo creduto e abbiamo conosciuto». Abbiamo creduto per poter conoscere; infatti se prima volessimo sapere e poi credere, non saremmo capaci né di conoscere né di credere. Che cosa abbiamo creduto e che cosa abbiamo conosciuto? «Che tu sei il Cristo Figlio di Dio (ibid.)», cioè che tu sei la stessa vita eterna, e tu ci dai, nella carne e nel sangue tuo, ciò che tu stesso sei.

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