Dal libro dell’Èsodo (16,2-4.12-15) – Io farò piovere pane dal cielo per voi: Questo episodio è la somma di elementi di tradizioni diverse: quella jahvista e quella sacerdotale; confronta, per esempio, la stretta regolamentazione della raccolta della manna, sottomessa alle esigenze del sabato. Al di là del problema della manna e delle quaglie, riunite nello stesso racconto, questo episodio vuole illustrare la Provvidenza di Dio per il suo popolo. Celebrato dai Salmi e dal libro della Sapienza, il nutrimento della manna diventerà, per la tradizione cristiana, la figura dell’eucari-stia, nutrimento spirituale della chiesa, il vero Israele, durante il suo esodo terrestre. Man hû’ («che cosa è?») è l’etimologia popolare della parola «manna», il cui significato esatto è sconosciuto.
Dal Salmo 77 (78) – Donaci, Signore, il pane del cielo: «La rievocazione, nel salmo, della storia passata tradisce finalità chiaramente didattiche. Il salmista si presenta come maestro di sapienza per il suo popolo, a cui vuole svelare il significato recondito degli avvenimenti andati, attenendosi alle tradizioni sacre trasmesse da padre a figlio per volontà divina, allo scopo di creare fiducia e obbedienza al Dio del patto, non imitando l’esempio di infedeltà alla legge e all’alleanza offerto dalle generazioni passate» (AA. VV., I Salmi, Morcelliana).
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (4,17.20-24) – Rivestite l’uomo nuovo, creato secondo Dio: Dopo l’appello all’unità, ora Paolo scongiura i cristiani di Efeso ad abbandonare la condotta pagana per convertirsi sinceramente al Vangelo. Questa vita nuova è iniziata nel battesimo: “quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo” (Gal 3,27) e va vissuta e testimoniata con una vita santa ricca di opere di giustizia.
Dal Vangelo secondo Giovanni (6,24-35) – Chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!: I cristiani hanno visto nella manna un’immagine dell’eucaristia. Gesù la evoca qui, come una figura del vero alimento della fede (vv. 6,35-50), la sua carne e il suo sangue, sorgente di vita eterna (vv. 51-58; cfr. Mt 4,4; 14,13-21). Ma quello che è interessante è l’espressione Io Sono che ricorda il nome divino rivelato a Mosè (cfr. Es 3,14; Gv 8,24): gli ebrei un giorno si ribellarono proprio per il suo uso cercando di lapidare Gesù (Gv 8,58-59). Ma nel racconto odierno e in molti altri passi, l’espressione introduce anche la spiegazione di una parabola espressa in gesti o parole: qui Gesù designa se stesso come il pane vero, raffigurato dalla manna e dal pane appena moltiplicato.
Dal Vangelo secondo Giovanni
In quel tempo, quando la folla vide che Gesù non era più là e nemmeno i suoi discepoli, salì sulle barche e si diresse alla volta di Cafàrnao alla ricerca di Gesù. Lo trovarono di là dal mare e gli dissero: «Rabbì, quando sei venuto qua?». Gesù rispose loro: «In verità, in verità io vi dico: voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati. Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna e che il Figlio dell’uomo vi darà. Perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo». Gli dissero allora: «Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio?». Gesù rispose loro: «Questa è l’opera di Dio: che crediate in colui che egli ha mandato». Allora gli dissero: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”». Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mose che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo». Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane». Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».
Approfondimento
Il pane – Fr. Merkel (Pane in Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, EDB): Il pane era il genere alimentare più importante di Israele, in origine fatto di un impasto di orzo, leguminacei acidi, lenticchie e altri ingredienti e quindi messi al forno: la Palestina era un paese povero. In seguito andò sempre diffondendosi il pane di frumento, che però soltanto lo strato più benestante poteva permettersi, mentre il pane d’orzo rimaneva il cibo, sovente quasi unico, dei poveri […]. In caso di una visita inaspettata (Gn 19,3) o durante il raccolto (Rt 2,14) si mangiava pane fatto di pasta non lievitata o più semplicemente chicchi di frumento tostati, questo tipo di cibo veniva portato dietro, come vivanda quasi indeperibile, quando capitava di doversi mettersi in viaggio all’improv-viso (1Sam 17,17 e altrove), come avvenne partendo dall’Egitto (Es 12,8-11.34-39). La festa del pane non lievitato (festa degli azzimi) viene ricondotta secondo Es 12,14-20; 13,3ss, a questa imprevista partenza; nella sua celebrazione viene riattualizzata ogni anno la liberazione dall’Egitto ad opera di Dio. Nel culto israelitico la farina o il pane venivano usati come offerta nel sacrificio alimentare (di origine preisraelitica: Lv 2). Anche in questo caso si offriva soltanto pane non lievitato. Si narra anche di dodici «pani del-l’offerta» che si trovavamo su un tavolo speciale, nel santuario di Israele (Es 25,30; 1Cr 28,16). Si trattava di focacce di pane non lievitato che venivano deposte come offerta al cospetto di Jahvé […]. Poiché al tempo e nell’ambiente storico del Nuovo Testamento il pane rappresentava l’alimento fondamentale, pane, oltre al suo significato specifico in senso stretto, può indicare anche alimento e sostentamento in generale (del resto anche noi diciamo «pane e lavoro», «guadagnare il pane» ecc.). Così il figlio prodigo si ricorda in terra straniera che gli operai giornalieri alle dipendenze di suo padre hanno pane in abbondanza (e cioè abbastanza di che vivere) (Lc 15,17). Perciò «mangiare il pane» ha il significato generale di «prendere un pasto» (Is 65,25); «spezzare il proprio pane» per chi è affamato significa dargli da mangiare e assisterlo (Is 58,7.10). Se uno non mangia «gratuitamente il pane di alcuno», vuol dire che non vive alle spalle degli altri, ma del proprio lavoro (2Ts 3,8). Chi si astiene dal pane e dal vino è un asceta che digiuna (Lc 7,33); la quarta richiesta della preghiera del Signore (Mt 6,11) si riferisce a tutto ciò che riguarda il nutrimento del corpo e i bisogni primari. Con l’espressione «mangiare il pane nel regno di Dio» (Lc 14,15) si intende la partecipa zio-ne al banchetto festivo nel regno celeste. La parola di Gesù «non di solo pane vive l’uomo» (citazione di Dt 8,3) si riferisce ai beni materiali nel senso più ampio, ai quali è contrapposta la forza vivificatrice della parola di Dio (Mt 4,4). La storia del miracolo con il quale Gesù, con un po’ di pane e un paio di pesci, sfamò una folla di 5.000 (Mt 14,13-21 par.) o di 4.000 persone (Mt 15,32-39 par.), viene attestata – con poche varianti della tradizione – complessivamente sei volte. Essa dimostra che Gesù, come signore messianico, distribuisce il vero pane della vita. Nella composizione del vangelo di Giovanni, al racconto del miracolo dei pani e del cammino sul lago (Gv 6,1-26) segue il discorso di rivelazione di Gesù: Gesù è il pane della vita. Dietro l’idea di «pane della vita» sta l’antica e universale aspirazione a un cibo che comunichi una vita che non viene meno. In questo senso va intesa anche la richiesta: «Signore, dacci sempre questo pane» (Gv 6,34). E Gesù risponde che è lui quello che i discepoli desiderano. Chi vuole partecipare a questa vita eterna deve sapere che Gesù è il pane e egli lo darà a quanti vengono a lui. Con questo egli si contrappone a tutti coloro che pretendono di essere essi stessi o di poter dare il pane della vita. Esiste una sola possibilità per dare la vita al mondo: «Il pane di Dio è il Rivelatore, che viene dal cielo e dà la vita al mondo» (R. Bultmann). Trova così risposta il problema sul senso e lo scopo della vita.
Commento al Vangelo
Io sono il pane della vita – La folla sazia del pane miracoloso (cfr. Gv 6,1ss), affascinata dalla parola del Maestro (cfr. Lc 19,48), conquistata dalla dolcezza di Gesù (cfr. Mt 11,28-30), si mette alla ricerca del giovane Rabbi. Un entusiasmo non gradito, così invece di accoglienza trova un rimprovero: «Gesù rimprovera al popolo, che lo cerca, la incomprensione del miracolo come segno in cui leggere mediante la fede la rivelazione della sua persona. La loro comprensione è ancora solo naturale, materiale» (Giuseppe Segalla). Al rimprovero segue un’esortazione: Datevi da fare non per il cibo che non dura, ma per il cibo che rimane per la vita eterna. Queste parole allargano gli angusti spazi spirituali del giudaismo: il pane, alimento che perisce, dà soltanto una vita che muore, il pane che il Figlio dell’uomo darà agli uomini spalanca le porte dell’eternità. L’eternità insegnata da Cristo era certamente una categoria religiosa assai lontana dalla teologia dei sadducei e dei farisei, anche se quest’ultimi, a differenza dei primi, credevano nella risurrezione. Il Figlio dell’uomo darà questo pane perché su di lui il Padre, Dio, ha messo il suo sigillo. Forse è un riferimento al Battesimo ricevuto da Giovanni nel fiume Giordano: potrebbe riferirsi alla voce del Padre che rivela al mondo Gesù come Figlio suo prediletto (cfr. Mt 3,17), oppure allo Spirito Santo disceso su di lui appena battezzato (cfr. Mt 3,16; Rm 4,11), potenza di Dio per effettuare i «segni» (cfr. Mt 12,28; At 10,38; Ef 1,13.30; 2Cor 1,22). Che cosa dobbiamo compiere per fare le opere di Dio? I giudei ammettono la loro ignoranza: comprendono la necessità di lavorare per avere il pane terreno, comprendono che devono darsi da fare per il cibo che rimane per la vita eterna, ma non conoscono le condizioni che Dio pone per concederlo. Qui gioca molto la loro mentalità legalista, credono che Dio ponga un prezzo ai suoi doni e credono di poterlo pagare osservando qualche regola o precetto. Praticamente, una sorta di baratto, così come erano avvezzi a credere e a insegnare a motivo di una imperfetta educazione religiosa. La correzione non tarda ad arrivare. L’amore di Dio e i suoi doni sono gratuiti. L’opera che Gesù vuole è unica: credere in lui. Ma chi è Gesù perché possano credere in lui? Per i giudei non basta la moltiplicazione dei pani, ed è poca cosa che in un convito nuziale abbia mutato l’acqua in vino, per credere in lui ora vogliono qualcosa di più. Se vuole accreditarsi come Messia rinnovi i prodigi dell’esodo. Come Mosè, Gesù dia al popolo da mangiare un pane dal cielo. Questo è il segno tangibile che i giudei chiedono, perché vedano e possano credere in lui. «La risposta di Gesù è tagliente: la loro fede [dei giudei] è illusoria. Soltanto suo Padre dà il vero pane del cielo. La manna è cosa del passato; il pane di Dio è presente, una comunicazione permanente di vita che egli dona al mondo. Questo pane scende dal cielo, come la manna pioveva dall’alto, ma senza cessare; e non si limita a dar vita a un popolo, ma all’umanità intera. Dato che è Gesù a dare questo pane [Gv 6,27], si afferma qui la comunicazione continua della vita di Dio all’uomo attraverso Gesù» (J. Mateos – J. Barreto). Gesù sottolinea che il datore del pane del cielo è Dio e non Mosé e chiamandolo Padre mio si prepara ad identificarsi con il pane di Dio. A queste parole, i giudei mostrano allegrezza, felici di aver trovato un tesoro senza la necessità di lavorare, e così chiedono di ricevere il pane del cielo. Poiché hanno omesso la condizione posta dal giovane Rabbi, e siccome Gesù non accetta le scorciatoie, ribadisce che soltanto lui è il pane della vita e per riceverlo bisogna credere in lui. Questa è l’unica condizione posta dal Padre e dal Figlio perché l’uomo non abbia più a soffrire la fame e la sete. La risposta di Gesù si oppone nettamente a quanto dice di se stessa la Sapienza: «Quanti si nutrono di me avranno ancora fame e quanti bevono di me avranno ancora sete» (Sir 24,21). Solo Gesù, pane della vita, può soddisfare pienamente l’uomo, nell’ani-ma e nel corpo: risuscitandolo certamente dalla morte e aprendolo alla contemplazione della luce della Trinità.
Riflessione
Datevi da fare per il cibo che rimane per la vita eterna – L’uomo ha sempre temuto la morte, e così tutti «i tentativi della tecnica, per quanto utilissimi, non riescono a calmare le ansietà dell’uomo; il prolungamento di vita che procura la biologia non può soddisfare quel desiderio di vita ulteriore, invincibilmente ancorato nel suo cuore» (GS 18). Di fronte alla morte, solo la Chiesa può dare una risposta alle ansietà dell’uomo circa la sua sorte futura: infatti, «la Chiesa… istruita dalla rivelazione, afferma che l’uomo è stato creato da Dio per un fine di felicità oltre i confini delle miserie terrene» (GS 18). E per raggiungere questo fine di felicità, la Chiesa addita, come mezzo eccellente, l’Eucarestia, «medicina di immortalità, antidoto contro la morte, alimento dell’eterna vita in Gesù Cristo» (Sant’Ignazio di Antiochia). Non si può dire che si tratti di una pura metafora. Il suo significato pieno e autentico è fondato nel Vangelo: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54). Si può affermare, come propone p. Cantalamessa, che l’Eucaristia «per-mette di assaporare le primizie della vita eterna e per questo è la fonte in cui si rinnovano costantemente “la speranza e la gioia” del cristiano». Ma cos’è la vita eterna? Una risposta la si può trovare nel Compendio: «La vita eterna è quella che inizierà subito dopo la morte. Essa non avrà fine. Sarà preceduta per ognuno da un giudizio particolare ad opera di Cristo, giudice dei vivi e dei morti, e sarà sancita dal giudizio finale» (207). I cristiani hanno sempre creduto che «le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo […] costituiscono il popolo di Dio nell’al di là della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della risurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi» (Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 28). Detto questo si può affermare che per «il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un andare verso di lui ed entrare nella vita eterna. Quando la Chiesa ha pronunciato, per l’ultima volta, le parole di perdono dell’assoluzione di Cristo sul cristiano morente, l’ha segnato, per l’ultima volta, con una unzione fortificante e gli ha dato Cristo nel viatico come nutrimento per il viaggio, a lui si rivolge con queste dolci e rassicuranti parole: “Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creato, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che è morto per te sulla croce, nel nome dello Spirito Santo, che ti è stato dato in dono; la tua dimora sia oggi nella pace della santa Gerusalemme, con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con tutti gli angeli e i santi. […]. Tu possa tornare al tuo Creatore, che ti ha formato dalla polvere della terra. […]. Mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplarlo per tutti i secoli in eterno” [Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, Raccomandazione dei moribondi, 236-237]» (CCC 1020). La Chiesa, quindi, a coloro che stanno per lasciare questa vita, offre, oltre all’Unzione degli infermi, Cristo nel viatico come nutrimento per l’ul-timo viaggio. Ricevuta in questo momento di passaggio al Padre, la Comunione al Corpo e al Sangue di Cristo ha un significato e un’importanza particolari: è seme di vita eterna e potenza di risurrezione, è «pegno sicuro» (CCC 1405) di vita eterna. Poiché «Cristo, che è passato da questo mondo al Padre, nell’Eucaristia ci dona il pegno della gloria futura presso di lui: la partecipazione al suo sacrificio ci identifica con il suo cuore, sostiene le nostre forze lungo il pellegrinaggio di questa vita, ci fa desiderare la vita eterna e già ci unisce alla Chiesa del Cielo, alla beatissima Vergine e a tutti i santi» (CCC 1419). Ma non possono essere taciute le condizioni necessarie per conquistare la vita eterna: solo chi si converte «a Cristo mediante la penitenza e la fede […]» passa dalla morte alla vita “e non va incontro al giudizio” [Gv 5,24]» (CCC 1470).
La pagina dei Padri
Non siamo nati per vivere in eterno quaggiù – San Girolamo: Ci rattristiamo per la morte di qualcuno: ma siamo forse nati per vivere eternamente qui? Abramo, Mosè, Isaia, Pietro, Giacomo e Giovanni, Paolo – il vaso d’elezione – e perfino il Figlio di Dio, tutti sono morti; e proprio noi restiamo indignati quando qualcuno lascia il suo corpo? E pensare che probabilmente, proprio affinché il male non riuscisse a forviare la sua ragione, è stato portato via! La sua anima, infatti, era gradita a Dio; per questo s’è affrettato a toglierla di mezzo all’iniquità (Sap 4,11.14) in modo che durante il lungo viaggio della vita non si smarrisse in sentieri traversi. Piangiamoli, sì, i morti; ma solo quelli che piombano nella geenna, quelli divorati dall’inferno, quelli per i quali è acceso un fuoco eterno! Ma se noi, quando lasciamo questa vita, siamo accompagnati da una schiera di angeli, se Cristo ci viene incontro, rattristiamoci piuttosto se ha da prolungarsi la nostra permanenza in questa residenza sepolcrale. E poiché, effettivamente, per il tempo che qui ci attardiamo, siamo come degli esi-liati che camminano lontani dal Signore, il desiderio, l’unico, che ci deve trascinare, è questo: Me infelice! Il mio esilio si prolunga; abito tra i cittadini di Cedar, e da troppo tempo l’anima mia è in esilio (Sal 119,5-6). Ora, se dire «Cedar» è dire «tenebre», se questo mondo è tenebre – nelle tenebre, infatti, la luce risplende, ma le tenebre non l’accolsero (Gv 1,5) – rallegriamoci con la nostra Blesilla che è passata dalle tenebre alla luce, e mentre ancora era lanciata nella fede appena accolta, ha ricevuto la corona di un’opera compiuta.