Dal libro del profeta Amos (7,12-15) – Va’, profetizza al mio popolo: Amasia teme le conseguenze della predicazione del profeta Amos, da qui i tentativi di allontanarlo da Betel. La fedeltà di Amos alla vocazione divina rende efficace e veritiero il suo annunzio. Un annunzio purtroppo di crudeli sventure: morte di spada per Geroboamo, esilio per Amasia e per tutto Israele, disonore e morte per donne e bambini.
Dal Salmo 84 (85) – Mostraci, Signore, la tua misericordia: “Dio gli parlava nell’intimo e il mondo faceva rumore di fuori: il profeta, si direbbe, si tura le orecchie al tumulto incessante di questa vita. È la voce del Cristo, la voce di Dio, che è pace e che chiama alla pace. In questa città di cui sempre vorrei parlare, vi sarà la pace purissima per i figli di Dio: tutti si ameranno vedendosi pieni di Dio quando Dio sarà tutto in tutti (cfr. 1Cor 15,28). Noi saremo tutti spettatori di un’unica visione: Dio; godremo di una sola pace: Dio. Tale sarà la pace perfetta e piena” (Agostino).
Dalla lettera di san Paolo apostolo agli Efesìni (1,3-14) – In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo: Paolo svela agli Efesini il ‘mistero della volontà di Dio’ che è quello di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra. Questo disegno comporta anche la chiamata dei pagani a condividere la salvezza già riservata a Israele. Il progetto divino, iniziato già da ora in modo misterioso, sarà completo quando il regno di Dio si stabilirà in modo glorioso e definitivo, nella manifestazione ultima del Cristo.
Dal Vangelo secondo Marco (6,7-13) – Prese a mandarli: Essere mandati a due a due è in sintonia con la tradizione biblica, secondo la quale solo la testimonianza di due testimoni (o più) garantisce la veridicità di un fatto (cfr. Dt 19,15). Il potere sugli spiriti, che Gesù conferisce ai Dodici, è un potere teso a liberare l’uomo nella sua totalità come persona umana, in modo specifico è finalizzato a liberarlo dal peccato, dalla morte corporale e da quella spirituale. Scuotere la polvere dai piedi è un gesto tipico degli Ebrei che, così, esprimevano il distacco dal mondo pagano e la messa sotto accusa di chi si chiudeva al messaggio del vero e unico Dio. L’unzione con l’olio è bene testimoniata nel mondo pagano e in quello biblico. In quest’ultimo l’unzione compare come segno messianico con il quale si evidenzia quanto la forza di Dio sa operare sul corpo e sullo spirito dell’uomo.
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù chiamò a sé i Dodici e prese a mandarli a due a due e dava loro potere sugli spiriti impuri. E ordinò loro di non prendere per il viaggio nient’altro che un bastone: né pane, né sacca, né denaro nella cintura; ma di calzare sandali e di non portare due tuniche. E diceva loro: «Dovunque entriate in una casa, rimanetevi finché non sarete partiti di lì. Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi come testimonianza per loro». Ed essi, partiti, proclamarono che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio molti infermi e li guarivano.
Approfondimento
Amos – Nato a Tekoa, ai margini del deserto di Giuda, visse la sua missione al tempo di Geroboamo II (783 – 743 a.C.). Estraneo alle confraternite dei profeti, era stato preso dal Signore Dio da dietro il gregge e mandato a profetizzare a Israele.
Erano tempi di una certa tranquillità politica ed economica, in cui il regno del nord si espandeva e si arricchiva. Ma l’opulenza dei pochi non riusciva a nascondere la miseria che attanagliava molti Israeliti. Poiché i morsi della fame potevano suggerire soluzioni non pacifiche si moltiplicavano gli appelli dei falsi profeti, come Amasia; appelli volti ad essere pazienti e a restare fedeli e obbedienti al re. Ma la politica di quest’ultimo, purtroppo, favorendo l’arricchimento dei pochi a danno dei poveri sempre più poveri, faceva sì che alle sperequazioni sociali si assommassero l’ingiu-stizia, la violenza e l’egoismo verso i più diseredati.
In questo modo i deboli venivano sfruttati e schiacciati dai più forti.
Un’altra cancrena si aggiungeva ad un corpo disfatto: la preghiera fatta di ritualismo sterile. Se serviva al potere per anestetizzare il popolo dal-l’altra parte alienava sempre più Israele da Dio.
È in queste condizioni difficili che Amos è mandato da Dio a profetizzare. Pur dovendo muoversi in campi minati, la sua lingua non si inceppò. Obbedendo alla voce di Dio e lasciando greggi e coltivazioni, si trasferì dal sud al nord per entrare nella splendida, lussuosa e corrotta città di Samaria, capitale del regno settentrionale di Israele: nelle case dei ricchi si potevano ammirare avori intagliati, divani damascati, oggetti preziosi.
A tanto lusso sfrenato (cfr. Am 3,15) si accompagnava la dissolutezza delle cortigiane. Contro le oscene baldracche dell’alta società, Amos non temette di urlare queste parole: «Ascoltate, o vacche di Basàn, che siete sul monte di Samaria, che opprimete i deboli, schiacciate i poveri e dite ai vostri mariti: Porta qua, beviamo! Il Signore Dio ha giurato per la sua santità: Ecco, verranno per voi giorni in cui sarete prese con ami e le rimanenti di voi con arpioni da pesca!» (Am 4,1-2).
Questa ultima affermazione non era soltanto un’immagine lasciata cadere a caso nel discorso, ma si riferiva al macabro uso carcerario di allora, per il quale i prigionieri erano tenuti fermi con arpioni inseriti nel labbro inferiore. Questa profezia si avvererà pochi decenni dopo, allorché il re assiro Sargon II, nel 722-721 a.C., conquisterà la Samaria.
Amos non temerà di rimproverare i sacerdoti, denunciando tutte le ingiustizie e condannando in nome di Dio il culto ipocrita celebrato nei vari santuari, esigendo un’unione tra fede e vita, preghiera e onestà. Le parole del Signore sono ferme e sferzanti: «Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni; anche se voi mi offrite olocausti, io non accetto i vostri doni… Lontano da me il frastuono dei tuoi canti, il suono delle tue arpe non posso sentirlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne» (Am 5,21-24). Amos sottolineò anche la responsabilità personale di ciascun individuo di fronte a Dio, facendo balenare l’irruzione del «giorno del Signore», nel quale gli Ebrei sarebbero stati chiamati a rispondere personalmente dei loro peccati dinanzi a Dio: «Che sarà per voi il giorno del Signore? Sarà tenebra e non luce. Come quando uno fugge davanti al leone e s’imbatte in un orso; entra in casa, appoggia la mano sul muro e un serpente lo morde» (Am 5,18-19).
Per i giusti invece sarebbe sorta un’alba di speranza e di gioia: «Chi ara s’incontrerà con chi miete e chi pigia l’uva con chi getta il seme; dai monti stillerà il vino nuovo e colerà giù per le colline» (Am 9,13).
Punto forte della predicazione di Amos era la profonda convinzione che Yahve era il Dio di tutte le genti e non soltanto degli Israeliti (cfr. Am 1,3.6.9.11.13; 2,1.4.6), anche se con questi ultimi aveva stretto un patto che tuttavia non conferiva loro privilegi, ma la responsabilità di mostrare un’obbedienza esemplare alla legge divina (cfr. Am 2,6-3,2; 9,7). Da quanto Amos andava predicando si capiva che si correva velocemente verso un futuro gravido di lutti e di catene per cui preferirono tappargli la bocca e rispedirlo a casa.
Commento al Vangelo
Chiamò i Dodici – Gesù è stato cacciato via da Nazaret ed è proprio a ridosso di questa sconfitta-umiliazione («non vi poté operare nessun prodigio… si meravigliava della loro incredulità» Mc 6,6) che si situa la missione dei Dodici. In questo modo l’episodio funziona da deterrente preservando gli apostoli da quei facili entusiasmi fin troppo umani e convincendoli ad aprirsi con fiducia alla presenza-potenza del Risorto.
Gesù, dunque, chiama i Dodici ed incomincia a mandarli a due a due. Non è superfluo sottolineare che la chiamata e il mandato vengono da Dio.
La vocazione non può essere frutto di una scelta dell’uomo: va ad evangelizzare chi è stato inviato dal Signore e chi è mandato non va a predicare opinioni, fantasie, elucubrazioni, verità o scoperte personali. La vocazione alla missione è quindi un dono, che Dio dà a chi vuole.
All’uomo spetta accettarlo e farlo proprio. Il dono presuppone discernimento e sopra tutto quel ritiro (cfr. At 9,8-9), fisico e spirituale, necessario per maturare come persona, per crescere nella conoscenza di Colui che chiama, per diventare responsabilmente atti a operare le scelte che determineranno la missione, per accompagnare la propria vita verso quel solco dove essa deve cadere per morire e portare molto frutto (cfr. Gv 12,24). Un missionario che si prepara soltanto sui banchi di scuola di un seminario, è vocato al fallimento.
Dal proseguo del racconto si intende che è una chiamata che costa sacrifici e rinunzie; è una chiamata che colloca il missionario in uno stato totale di precarietà: è lo Spirito Santo l’attore principale della missione, è lui che decide i tempi, il luogo dove andare e dove non andare, a pianificare l’azione e a predisporre salutarmente tutto quello che è bisognoso per una buona riuscita; se è necessario, anche catene, insuccessi, umiliazioni e se è utile persino la morte violenta di colui che è mandato (cfr. At 8,29.39-40; 10,19; 13,1-4; 16,6-7; 17,22-34; 20,22-23; 21,10-11; ecc.).
Questo spogliarsi (del proprio lavoro, delle scelte di vita già fatte…) fa comprendere come si deve intendere la radicalità che Cristo esige da chi si pone al suo seguito. La povertà che Cristo richiede dai suoi discepoli va al di là della povertà fisica: è una profonda e radicale fedeltà a Dio che sconfina nell’abbandono fiducioso all’azione divina: «Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l’accompagnavano» (Mc 18,20). È la certezza che dinanzi ai re, ai tribunali, ai giudici umani, sarà lo Spirito Santo a parlare in loro (cfr. Mt 10,17-20).
Se il missionario deve essere povero, anche la missione deve essere povera, soprattutto di mezzi umani: «E ordinò loro che, oltre al bastone, non prendessero nulla per il loro viaggio» (Mc 6,8).
Il missionario che pensa di procurarsi tutti i mezzi umani necessari per una buona riuscita della missione la vota al più sicuro fallimento: «La missione si prepara, sì, ma non più di quanto è necessario. L’attenzione non è rivolta principalmente alla povertà dei missionari, ma più ancora alla povertà della missione. La missione è solo questo: un ‘invio’, un essere inviato da colui che è l’unico responsabile del suo successo» (José Maria Gonzáles-Ruiz).
A questo punto si comprende a cosa miri l’ordine di Gesù: il Vangelo vuole testimoni di vita e non un annuncio che si basi su dottrina e scienza umane (cfr. 1Cor 1,17). Gesù vuole una Chiesa povera, che non abbia fiducia sui mezzi umani, ma che si abbandoni fiduciosa a Dio. Quindi le parole di Gesù vanno al di là del puro significato letterale: quello che conta «per l’apostolo è “la passione” per la sua missione, per cui non trova tempo neppure per progettare ciò che è strettamente necessario per il viaggio; e soprattutto è la immensa fiducia in Dio che non gli farà mancare l’indispensabile per vivere» (Settimio Cipriani).
Quando la Chiesa apostolica incominciò a praticare la carità verso i più poveri, ad interessarsi delle vedove (cfr. At 6,1ss), a condividere beni ed eucaristia (cfr. At 2,42-47), quando mostrò i segni inequivocabili della povertà (cfr. At 3,6), della carità e della solidarietà, la risposta del popolo fu immediata ed entusiasta: «Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e tutti essi godevano di grande simpatia» (At 4,33).
Se il fallimento deve essere preventivato, il missionario è obbligato, per giustizia e per verità, a prenderne nota: «Se in qualche luogo non vi accogliessero e non vi ascoltassero, andatevene e scuotete la polvere sotto i vostri piedi» (Mc 6,11).
Un vangelo dunque senza sconti: sia per chi lo annuncia, sia per chi lo riceve. Il missionario deve mettere nella sua bisaccia, oltre il pane, anche la possibilità del rifiuto o della persecuzione. Dare la vita per il regno di Dio, cioè la morte violenta, per l’apostolo non è un incidente di percorso. Il testimone deve avere la chiara consapevolezza che la sua strada è tutta in salita. Il sigillo che marchia l’opera del profeta è la persecuzione, l’odio gratuito, il rifiuto della sua parola: per una chiamata gratuita la croce è l’unico prezzo che il discepolo deve sborsare. Invece, per chi si ostina a non ascoltare o a non accogliere la parola di salvezza l’appunta-mento con la giustizia divina è soltanto rimandato: la polvere dei sandali dei missionari sarà un capo d’accusa indelebile dinanzi agli occhi del Cristo redentore e giusto giudice. Non è vendetta. Il rifiuto è un fatto oggettivamente discriminante: colui che, liberamente, non accoglie il Vangelo da se stesso si pone fuori dall’amicizia con il Cristo.
La nota finale, «Ed essi partiti, proclamavano che la gente si convertisse, scacciavano molti demòni, ungevano con olio…» (Mc 6,12-13), mette in evidenza una Chiesa decisamente carismatica: la parola e i prodigi sono complementari; il potere di scacciare i demòni e di guarire gli ammalati danno alla parola il sigillo della veridicità e l’annunzio conferma che i miracoli sono doni salvifici, non fine a se stessi, ma donati gratuitamente da Dio agli uomini per la loro salvezza. Gesù trasmette ai Dodici il potere di fare miracoli e di scacciare i demòni, per indicare la continuità della sua opera con l’opera degli Apostoli e della Chiesa.
Riflessione
Gesù chiamò a sé i Dodici – Uomini scelti da Gesù Cristo, da lui inviati nel mondo, col mandato di annunciare il Vangelo, questo in breve l’identik dell’Apostolo. E in questi tre verbi si racchiude tutta l’esistenza dell’Apo-stolo.
Ma non sono uomini mandati allo sbaraglio, perché nella missione restano sempre in perfetta comunione con Colui che li ha chiamati e mandati: “Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo… Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore agiva insieme con loro e confermava la Parola con i segni che la accompagnavano” (Mt 28,20; Mc 16,20)
Quindi con-partecipi della missione del Cristo che li ha costituiti annunciatori del Regno e Pastori della sua Chiesa: “Fin dagli inizi della vita pubblica, Gesù sceglie dodici uomini perché stiano con lui e prendano parte alla sua missione; li fa partecipi della sua autorità e li manda «ad annunziare il Regno di Dio e a guarire gli infermi» (Lc 9,2). Restano per sempre associati al Regno di Cristo, che, per mezzo di essi, guida la Chiesa: Io preparo per voi un Regno, come il Padre l’ha preparato per me; perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio Regno, e siederete in trono a giudicare le dodici tribù d’Israele [Lc 22,29-30]» (CCC 551).
Ma la voce di Cristo non si è spenta, continua a chiamare perché arrivi a compimento l’opera iniziata dagli Apostoli: “Coloro che, con l’aiuto di Dio, hanno accolto l’invito di Cristo e vi hanno liberamente risposto, a loro volta sono stati spinti dall’amore di Cristo ad annunziare ovunque nel mondo la Buona Novella. Questo tesoro ricevuto dagli Apostoli è stato fedelmente custodito dai loro successori. Tutti i credenti in Cristo sono chiamati a trasmetterlo di generazione in generazione, annunziando la fede, vivendola nell’unione fraterna e celebrandola nella Liturgia e nella preghiera” (CCC 3).
Una missione esaltante, che proietta l’apostolo nel mondo di Dio costituendolo suo collaboratore, ma che tuttavia rimane immerso nelle pieghe della storia umana, ed è per questo motivo che a volte conosce l’a-marezza del rifiuto e della persecuzione.
La pagina dei Padri
Non possedere due tuniche – Origene: È infatti un dovere proprio degli apostoli, piuttosto che del popolo, che se uno ha due tuniche, una la dia a chi non ne ha. E perché tu sappia che questo consiglio conviene agli apostoli più che alle folle, ascolta ciò che il Salvatore dice loro: “Non portate per via due tuniche” (Mt 10,10).
Sta di fatto che questi due abiti, dei quali uno serve a vestirci e l’altro ci vien consigliato di darlo a chi non ne ha, hanno un altro significato. Insomma il Salvatore, così come noi «non dobbiamo servire due padroni» (cfr. Lc 16,3; Mt 6,24), vuole che non possediamo due tuniche e non siamo avvolti in un duplice abito, in quanto uno è l’abito del vecchio uomo e l’altro l’abito dell’uomo nuovo. Egli al contrario desidera vivamente che noi «ci spogliamo del vecchio uomo per rivestirci dell’uomo nuovo» (cfr. Col 3,9-10). Fin qui la spiegazione è facile.
Ma ci si chiede soprattutto perché, alla luce di questa interpretazione, venga ordinato di dare una tunica a chi non ne ha. Qual è l’uomo che non ha sul suo corpo neppure un abito, che è nudo, che non è coperto assolutamente da nessuna veste? Io non dico in verità che con questo precetto non ci venga comandato di essere generosi, di avere pietà per i poveri e di possedere una bontà illimitata, tanto da spingerci a coprire coloro che sono nudi coll’altra nostra tunica; ma affermo che questo passo ammette un’interpretazione più profonda.
Noi dobbiamo donare una tunica a chi ne è completamente sprovvisto: chi è quest’uomo senza tunica? È colui che è assolutamente privo di Dio. Noi dobbiamo spogliarci e dare la tunica a chi è nudo. Uno possiede Dio, e l’altro, cioè il potere avversario, ne è del tutto privo. E così come sta scritto: “precipitiamo i nostri delitti in fondo al mare” (Mi 7,19), nello stesso senso dobbiamo buttar via lontano da noi i vizi e i peccati e gettarli su colui che è stato per noi la causa di essi.