Dal libro del profeta Ezechièle (2,2-5) – Sono una genìa di ribelli, sapran–no almeno che un profeta si trova in mezzo a loro: Nel 597 il re babilonese Nabucodònosor aveva assediato Gerusalemme, l’aveva espugnata e aveva operato una prima deportazione di abitanti. Tra i deportati c’è anche Ezechièle, il quale «nell’anno quinto della deportazione del re Ioiachìn» (Ez 1,1-3), mentre si trovava lungo il canale Chebàr, riceve l’investi-tura di profeta. Il suo ministero profetico si svolge tra mille contestazioni: è arduo far comprendere ai Giudei che la rovina della nazione, che culminerà nel 587 con la distruzione di Gerusalemme e del tempio, era da imputare alla loro apostasia, alla loro durezza di cuore (cfr. Ez 2,3). Cuore duro nel testo di Ezechièle evoca più l’egoismo che la ribellione o la testardaggine. L’espressione «figlio dell’uomo», che nell’ebraico si usa spesso nel senso di «uomo» (cfr. Is 51,12), col tempo diventò un titolo messianico, poi ripreso da Gesù e applicato a se stesso (cfr. Mt 8,20).
Dal Salmo 122 (123) – I nostri occhi sono rivolti al Signore: «Il profeta ha in-vocato Dio nell’angoscia [cfr. Sal 119,1] e nelle tenebre. Una luce intermittente lo ha preparato, ha udito la bella profezia: Ho gioito quando mi hanno detto… [Sal 121,1]. Vi è giunto e canta il suo pellegrinaggio: A te ho levato i miei occhi… La vera dimora di Dio è il Cristo: il Padre è in me [Gv 10,38]. Dio abita pure in noi: Io abiterò e camminerò in mezzo a loro [2Cor 6,16]» (Sant’Ilario).
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (12,7-10) – Mi van–terò delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo: San Tommaso commentando questo brano paolino, spiega che Dio può permettere talvolta alcuni mali per conseguire beni maggiori: così per evitare la superbia – radice e principio di ogni vizio – consente a volte che i suoi eletti siano umiliati da una malattia, da un qualche difetto, o persino dal peccato mortale, perché «l’uomo così mortificato riconosca che non può reggersi con le sue sole forze. Perciò si afferma: “Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8,28), non certamente per il loro peccato, ma per i disegni di Dio» (Super Epistulam II ad Corinthios lectura).
Dal Vangelo secondo Marco (6,1-6) – Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria: È inspiegabile l’incredulità degli abitanti di Nàzaret ed è incomprensibile come i suoi paesani facilmente passino dallo stupore e dall’ammirazione all’animosità e all’insulto. Ma questo è il destino di tutti i profeti. Gesù non viene risparmiato da questa prova che si farà ancora più drammatica nel giorno in cui Pilato, nel tentativo di liberarlo, lo presenterà alla folla: in quel giorno, ingrata, dimenticando gli innumerevoli doni ricevuti, si farà serva dell’odio dei farisei (cfr. Mt 27,11-26).
Dal Vangelo secondo Marco
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
Approfondimento
I cristiani, popolo di fratelli – Stefano Virgulin (Fratello, Schede Bibliche Pastorali, EDB): Nella primitiva comunità cristiana vigeva un forte senso di fratellanza, e i cristiani si distinguevano dai giudei e dai pagani in quanto «fratelli» (cfr. At 14,2).
Il titolo primitivo dei cristiani è quello di fratello; esso ricorre centosessanta volte nel Nuovo Testamento (Gv 21,23; At 1,15-16). Soprattutto nelle epistole paoline viene spesso usato il termine fratello nel senso di cristiano (Rm 14,10; Gal 1,2).
La condotta fraterna da tenere a riguardo dei confratelli di fede è raccomandata nel Nuovo Testamento e viene concretamente messa in risalto nella vita della chiesa primitiva quale è descritta negli Atti degli Apostoli (1Pt 2,17; At 15,30). Paolo fu spesso amorevolmente accolto, ospitato ed accompagnato alla partenza dai cristiani, istruiti nelle vie del Signore (At 21,27; 28,14-15).
Questi esempi ci mostrano che la fraternità è unione personale con i fratelli in Cristo e fiorisce là dove è possibile un rapporto di vita tra di loro; essa è vita vissuta in unione con i figli di Dio. Nell’unità e nella diversità della Chiesa, corpo di Cristo, si realizzava una fraternità universale e nello stesso tempo concreta. La fraternità cristiana è anche unità del sentire e del pensare, è fedeltà alla stessa tradizione; per questo ci possono essere nella comunità cristiana dei «falsi fratelli» (Gal 2,4-5; 2Cor 11,26), come ci sono dei falsi maestri. Verso i fratelli che cadono in errore occorre esercitare il dovere della correzione fraterna (Mt 18,15-17).
L’amore dei fratelli è una forma privilegiata di amore, e i credenti l’han-no appresa direttamente da Dio (1Tss 4,9-10). Poiché sono tutti figli di Dio, partecipano alla medesima alleanza, sono membri della stessa comunità e della stessa famiglia spirituale, essi sono uniti tra loro dai legami di un’autentica fraternità. Questa non è una semplice benevolenza, ma una comunione reale; ogni cristiano ne è perfettamente cosciente, si aggrappa ad essa, vi attinge conforto e coraggio nelle prove e persecuzioni che condivide con i fratelli (1Pt 5,9).
L’amore tra i discepoli di Cristo prende necessariamente la forma di una dilezione fraterna: i cristiani si amano come fratelli e sorelle, non solo perché si sentono uniti dalla stessa fede, ma per un’esigenza primordiale della loro vocazione.
Infatti il discepolo di Gesù, consacrato a Dio nel battesimo, è come votato alla pratica della dilezione fraterna (1Pt 1,22-23). Questa diventa un elemento costitutivo del suo essere. Egli è ordinato ad amare i fratelli, gli altri figli dello stesso padre, dal profondo del cuore (cfr. 1Pt 2,1), attivamente e anche intensamente.
La dilezione fraterna unisce la tenerezza al rispetto (Rm 12,10; 1Pt 3,8); è ben diversa quindi dal rude cameratismo. Il comportamento dei cristiani si rivela così assolutamente originale; esso esprime la comunione d’amo-re dei fratelli nell’adorazione dell’unico Signore (cfr. Tt 3,15); ha la confidenza di un affetto familiare, ma conserva la delicatezza e il rispetto che si devono a degli esseri santi, dei «fratelli in Cristo». Solo nella chiesa di Cristo ci si ama in questo modo, e i suoi membri possono essere riconosciuti da questa dilezione che esercitano costantemente (Eb 13,1-2).
Nello stesso tempo questa forma di carità non può limitarsi a un cerchio ristretto, ma tenderà ad estendersi, sotto un’altra forma, a tutti gli uomini. Il cristiano infatti deve amare non solo i fratelli nella fede, ma tutti coloro che sono suo prossimo, cioè chiunque gli è accanto e ha bisogno di lui. L’amore dei fratelli (filadelfia) è una forma speciale, privilegiata dell’agapé, la cui estensione è universale (1Tss 3,12; 2Pt 1,7).
La filadelfia e l’agapé sono una caratteristica e un’esigenza fondamentale del cristiano; sono due articoli essenziali della catechesi primitiva, pienamente conforme al vangelo di Gesù (cfr. Rm 13,8-10; Gal 5,22; Ef 4,26.31-32).
Amatevi gli uni gli altri: questa è la regola evangelica della dilezione fraterna e della vita cristiana (Gv 13,34-35; 15,12-17; Rm 13,8 ecc.).
Commento al Vangelo
Gesù venne nella sua patria – Marco si riferisce a Nàzaret, una località che non è menzionata né nell’Antico Testamento, né in Giuseppe Flavio, né nel Talmud. È nominata per la prima volta nel Nuovo Testamento come patria di Gesù e dei suoi parenti (cfr. Mt 2,23; Mc 1,9; 6,3; Lc 2,51).
Il racconto della visita di Gesù a Nàzaret lo si trova anche nel vangelo di Matteo ed è inserita dopo il discorso in parabole (13,53-58) e nel vangelo di Luca collocata all’inizio del ministero pubblico (4,16-30). Quest’ultimo, a differenza di Matteo e Marco, ha elaborato un racconto eccessivamente sovraccarico.
Molti, ascoltando, rimanevano stupiti: quello che dicono o pensano i molti è una sintesi del ministero di Gesù: predicazione e miracoli. Ma lo stupore nasce dal fatto che sono note le origini di Gesù: praticamente si erano fermati alla “carne” (cfr. 2Cor 5,16) ed è naturale che questa “co-noscenza carnale” generasse nella loro mente una cascata di domande.
Nàzareth era la casa di Gesù, la sua patria, dove era vissuto fin dall’in-fanzia, aveva i parenti ed era ben conosciuto, e un inconcepibile orgoglio, gretto e meschino, impedisce ai Nazaretani di ammettere che uno come loro, cresciuto sotto i loro occhi esercitando un umile mestiere, possa essere un profeta, anzi addirittura il Messia, il Figlio di Dio. La modestia e l’umiltà di Gesù è lo scandalo nel quale inciampano chiudendosi alla fede. E Gesù osserva con tristezza: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». Per gli abitanti di Nàzaret Gesù è un tekton: un mestiere che comportava l’abilità professionale di svolgere simultaneamente la professione di falegname, di fabbro e di muratore.
Figlio di Maria: questa espressione è contraria all’uso ebraico, che identifica un uomo in rapporto a suo padre. L’uso improprio, forse, vuole mettere in risalto la fede dell’evangelista Marco e della sua comunità, secondo cui il Padre di Gesù è Dio (cfr. Mc 1,1.11; 8,38; 13,32; 14,36).
Se è vero che Paolo e tutti e quattro gli evangelisti parlano dei fratelli e delle sorelle del Signore, è anche vero che gli autori sacri parlano solo e sempre di fratelli di Gesù, mai di figli di Maria. Solo Gesù è detto figlio di Maria (Mc 6,3) e Maria è detta solo e sempre madre di Gesù, e non di altri (cfr. Gv 2,1; 19,25; At 1,14).
I Vangeli ci hanno tramandato i nomi dei cosiddetti fratelli di Gesù che sono: Giacomo, Giuseppe (o Joses), Giuda (non Giuda Iscariota, il traditore) e Simone (cfr. Mt 13,56; Mc 6,3). Gli stessi Vangeli però ci informano anche di chi erano figli (cfr. Mt 27,55-56; Mc 15,40-41; ecc.) per cui senza ombra di dubbio possiamo affermare che essi non sono figli di Maria, la madre di Gesù, ma suoi nipoti, figli d’una sorella ben menzionata da Giovanni (cfr. Gv 19,25). Oltretutto, si conosce la scarsità di termini ebraici indicanti i vari gradi di parentela: fratello e sorella potevano indicare anche parenti di secondo grado. Anche la Settanta (traduzione greca della Bibbia) adopera il termine greco adelfos per tradurre il termine ebraico ah, anche quando si tratta in modo palese di cugini o anche di parenti (cfr. Gen 13,8; 1Cr 23,21; ecc.).
Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua, è il loghion centrale della pericope. Il rifiuto di Gesù come profeta, ha un logorante crescendo: ad iniziare sono i parenti, poi i compaesani e infine i Giudei. Il proverbio rivela la sorte che attendeva Gesù, la stessa sorte che era stata riservata ai profeti: alcuni «furono torturati… Altri, infine, subirono insulti e flagelli, catene e prigionia. Furono lapidati, torturati, tagliati in due, furono uccisi di spada, andarono in giro coperti di pelli di pecora e di capra, bisognosi, tribolati, maltrattati – di loro il mondo non era degno! -, vaganti per i deserti, sui monti, tra le caverne e le spelonche della terra» (Eb 11,35-38).
E lì non poteva compiere nessun prodigio… Gesù non può operare per la mancanza di fede da parte del popolo. Gesù, come Dio, avrebbe potuto compiere prodigi o miracoli, ma come condizione è sempre necessaria la fede.
… solo impose le mani a pochi malati e li guarì: i pochi malati guariti certamente avranno esternato con fermezza la loro fede in Gesù: i “gesti di potenza sono forza di Dio. Ed è questo che un profeta deve manifestare. Ma per cogliere il mistero della sua persona, bisogna aprirsi al Gesù reale e non ridurlo al ritratto che ci eravamo fatti di lui, come ci capita di fare coi nostri fratelli e con noi stessi. La potenza di Gesù è legata, e la sua parola resa inefficace, quando non incontra un ascolto attento, una disponibilità alla fede. Il mistero del regno non si scopre sul piano del sensibile” (Jean Radermakers).
I pochi malati guariti dimostrano che Gesù è sempre pronto a salvare chi l’accetta come Salvatore.
Chi si comporta come gli abitanti di Nàzareth, ossia chi non accetta la signoria di Gesù nella sua vita impedisce di fatto al Signore di operare. Come abbiamo visto a Nàzareth Gesù non poteva compiere nessun prodigio; non è che non volle, non poté.
I suoi concittadini volevano che operasse qualche miracolo, ma non avevano capito che non si trattava di prodigi o di magie al servizio della propria fama. Il miracolo è la risposta di Dio a colui che tende la mano e chiede aiuto. Nessuno di loro tese la mano, tutti semmai avanzavano pretese. Non è questa la via per incontrare il Signore.
E si meravigliava della loro incredulità… La meraviglia di Gesù «denota il suo stupore per l’incredulità dei paesani; una cosa sorprendente e inaspettata per lui. Marco non ha preoccupazioni teologiche circa la prescienza divina di Gesù, ma ce lo presenta nella sua realtà storica. Questi non poté compiere miracoli, perché i nazaretani non si aprirono con fede alla missione affidatagli dal Padre: l’onnipotenza di Dio risulta condizionata dall’incredulità dell’uomo: “Come la sua potenza è la nostra salvezza, così la nostra incredulità è la sua impotenza” [Gnilka]» (A. Poppi).
Nonostante questo insuccesso, Gesù continua a percorre «i villaggi d’intorno insegnando»: monito ed esempio per quei credenti pronti a scoraggiarsi anche per il più piccolo disagio.
Riflessione
Chi è il profeta? – Certamente non è una mummia irrancidita dentro le sue verità scontate. È un uomo venduto all’amore di Dio e da questo legame trae nuove speranze per l’uomo: “Noi infatti, secondo la sua promessa, aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova, nei quali abita la giustizia” (2Pt 3,13).
Il profeta, in quanto possiede «la conoscenza di Dio» (Sap 2,13), sa incoraggiare chi ama la verità e la giustizia; chi ama osare al di là di ogni andazzo umano. Il profeta è un uomo che fa sognare perché non incollato alle cose vecchie rincorre alle nuove (1Cor 5,17). Il profeta è un uomo concreto, con i piedi ben piantati a terra; sa partire sempre dalle necessità e dai bisogni reali della gente, perché non fa filosofia (cfr. Gc 2,14-17). E in quanto uomo concreto, riesce a cambiare le norme, le consuetudini e ribaltare le regole; riesce a vincere le tradizioni che ammuffiscono l’uo-mo e le abitudini che spengono lo spirito e paralizzano ogni iniziativa.
Il profeta è l’uomo di Dio che urla l’amore del suo Signore abbandonato dal popolo. Ma grida a squarciagola anche la misericordia infinita di Dio. Anche se l’amore non è corrisposto, l’unica rivincita del Signore Dio sarà quella di continuare ad amare il suo popolo, nonostante le loro infedeltà: gli Israeliti quanto «al vangelo, sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto all’elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili!» (Rm 11,1ss). Questa è la misericordia di Dio e il suo amore infinito: anche i ribelli abiteranno presso il Signore Dio (cfr. Sal 68 [67],19).
Nella «pienezza del tempo» (Gal 4,4), la presenza di Gesù, profeta del Padre, uomo tra uomini, è il segno inequivocabile della fedeltà e dell’a-more di Dio. In Cristo Gesù l’amore del Padre ha raggiunto il «vertice più alto. E questo non solo perché Cristo è il dono più prezioso dell’amore del Padre, ma anche perché in lui il rifiuto e la “durezza” di cuore degli uomini raggiungeranno il punto più alto di drammaticità e di sofferenza. Amore e infedeltà purtroppo, si inseguono e si commisurano a vicenda» (Settimio Cipriani).
La pagina dei Padri
Divenire fratelli di Cristo – Pseudo Macario: Il divenire fratello e figlio di Cristo comporta l’adempimento di qualcosa di straordinario, rispetto a quanto viene comunemente compiuto dagli altri uomini (cfr. Mt 5,47): occorre, cioè, sacrificare persino il cuore e la mente, insieme con i pensieri, per dirigerli verso Dio. Il Signore, così, accorda misteriosamente la vita e il soccorso al cuore, affidandogli se stesso. Se uno, infatti, consacra a Dio la propria intimità, cioè la mente e i pensieri, senza più occuparsi né esser distratto da altri interessi e preoccupazioni, ma anzi facendo violenza a se stesso, il Signore allora lo rende partecipe dei misteri, somministrandogli se stesso, in assoluta purezza e santità, come cibo celeste e bevanda spirituale.
Colui che possiede molti beni, insieme a servitori e figli, fornisce un vitto diverso ai primi, rispetto a quello destinato ai secondi, generati dal suo stesso seme; i figli, infatti, sono gli eredi del padre e, essendo suoi pari, mangiano assieme a lui. Ora, allo stesso modo, Cristo, il vero Signore (Ap 4,11; Ef 3,9), dopo aver creato ogni cosa si preoccupa di nutrire anche i malvagi e gli ingrati; nondimeno, i figli generati dal suo stesso seme e resi partecipi della sua grazia, fra i quali il Signore stesso è apparso in mezzo a noi, Iddio li alimenta e li ristora con un cibo e una bevanda particolari, a paragone degli altri uomini, donando se stesso, come afferma il Signore, a quanti si intrattengono col Padre loro: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue, rimane in me e io in lui, e non vedrà la morte (Gv 6,56). Coloro i quali siano entrati in possesso della vera eredità, infatti, sono come i figli generati dal Padre celeste e abitano nella casa del Padre loro, come avverte il Signore: Il servo non rimane nella casa; il figlio, invece, vi resta in eterno (Gv 8,35).